A che punto siamo con l’ibernazione per i viaggi spaziali

Tipo quella del film "Passengers": una società finanziata dalla NASA ci sta lavorando, anche se dobbiamo capire ancora molte cose

Una scena del film "Passengers" con Jennifer Lawrence e Chris Pratt in cui si vedono le capsule per l'ibernazione usate dai protagonisti del film
Una scena del film "Passengers" con Jennifer Lawrence e Chris Pratt in cui si vedono le capsule per l'ibernazione usate dai protagonisti del film

I protagonisti di Passengers, il film con Jennifer Lawrence e Chris Pratt uscito alla fine di dicembre, sono due esseri umani del futuro che si sono imbarcati su una grande nave spaziale per andare a colonizzare un altro pianeta, molto lontano dalla Terra: all’inizio del film entrambi, come tutti gli altri passeggeri dell’astronave, sono ibernati all’interno di capsule progettate per svegliarli alla fine del loro viaggio, che durerà 120 anni. L’idea dell’ibernazione come sistema per consentire lunghi viaggi spaziali non è nuova per la fantascienza – secondo alcuni lo stesso Passengers sarebbe ispirato a un fumetto degli anni Cinquanta con una storia simile – e nemmeno per la scienza: la NASA, per esempio, ha finanziato una ricerca su come realizzare l’ibernazione con il suo programma per finanziare studi innovativi in ambiti inesplorati, il NASA Innovative Advanced Concepts (NIAC).

La società che sta studiando l’ibernazione, ed è stata finanziata dal NIAC, si chiama Spaceworks Enterprises e ha sede ad Atlanta, in Georgia, negli Stati Uniti. Si occupa di progetti legati alle future frontiere dei viaggi spaziali. Il suo presidente, John A. Bradford, ha spiegato a Quartz che capire come poter ibernare le persone potrebbe essere molto utile nella prospettiva di fare un viaggio su altri pianeti, anche perché permetterebbe di ridurre la quantità di cibo (il metabolismo delle persone in stati simili all’ibernazione è ridotto), di acqua e di ossigeno necessari riducendo la massa delle astronavi e quindi anche i costi di carburante. Servirebbe inoltre meno spazio anche per far muovere l’equipaggio.

Spaceworks sta studiando l’ipotermia terapeutica, una procedura medica già usata negli ospedali di tutto il mondo su pazienti che hanno avuto un arresto cardiaco o una ferita grave al cervello. La temperatura del corpo di una persona che è messa in ipotermia terapeutica viene abbassata fino a 32-34 °C (comunemente la temperatura corporea umana è 36,5 °C) in modo da diminuire la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna: in questo modo i chirurghi guadagnano tempo per operare il paziente, perché molte funzioni vitali sono rallentate. Normalmente i pazienti sottoposti a ipotermia terapeutica sono tenuti in questo stato da due a quattro giorni al massimo, ma ci sono stati casi di persone tenute in ipotermia controllata dai medici anche per due settimane, senza subire effetti negativi. Nel 2006 c’è anche stato un caso di ipotermia naturale durato 24 giorni: il giapponese Mitsutaka Uchikoshi si perse in montagna, scivolò e si ferì al bacino, per poi svenire; quando fu trovato quasi un mese dopo da un escursionista la sua temperatura corporea era scesa a 22 °C, e anche se aveva perso molto sangue e non si era nutrito, riuscì a riprendersi completamente.

Bradford vorrebbe trovare il modo per rendere l’ipotermia terapeutica possibile e senza conseguenze per diversi mesi. Al momento si sta lavorando su un sistema che la consenta, all’interno di una nave spaziale, per un periodo di due settimane. Secondo lui, una volta fatto questo non dovrebbe essere difficile rendere la procedura medica automatica e adatta allo Spazio, visto che le apparecchiature che vengono usate per praticarla sono già piccole, non molto dispendiose quanto a consumi energetici, facili da usare e abbastanza comode da essere trasportate nelle ambulanze. Spaceworks sta lavorando a un ambiente chiuso che contenga più persone contemporaneamente, dunque non individuale come le capsule che si vedono in Passengers. In questo modo si spera di poter contenere il peso del dispositivo. Bracci meccanici e sistemi di monitoraggio automatico dovrebbero prendersi cura dei passeggeri, a cui dovrebbero essere applicate sonde intranasali per controllarne la temperatura corporea, flebo contenenti sostanze nutritive e cateteri.

Un’altra grossa differenza tra l’ibernazione fantascientifica e quella pensata da Spaceworks sarebbe nella durata: secondo molti medici che hanno collaborato al progetto, cicli brevi e ripetuti di ipotermia sarebbero più raccomandabili di un unico lungo periodo. Anche perché in questo modo un membro dell’equipaggio dell’astronave potrebbe sempre essere sveglio, controllare la salute degli altri e intervenire in caso di emergenza.

I problemi principali con l’ibernazione comunque riguardano la conservazione della massa muscolare, che nello Spazio sarebbe messa a rischio anche dall’assenza di gravità. Senza dover sostenere il peso del corpo, muscoli e ossa potrebbero indebolirsi e addirittura bloccarsi. Una soluzione potrebbe essere creare un sistema di gravità artificiale, ma potrebbe essere eccessivamente costoso. Per questo Spaceworks sta prendendo in considerazione di far fare esercizio fisico agli astronauti ibernati con la stimolazione elettrica neuromuscolare, un sistema che tramite impulsi elettrici porta i muscoli a contrarsi: viene già usata, a livello sperimentale, con persone in coma. Per conservare la massa ossea si potrebbero usare farmaci e integratori. Un altro problema fisico in assenza di gravità si deve al fatto che il cuore fa meno fatica a pompare il sangue fino alla testa, e quindi la pressione sanguigna nel cervello cresce: questo già crea problemi di vista agli astronauti che vivono nella Stazione Spaziale Internazionale. Spaceworks dice che problemi di questo tipo sarebbero marginali, perché l’ipotermia terapeutica funziona anche come contromisura per questa condizione.

Spaceworks inizierà a fare test sugli animali nel 2018 sulla Terra, poi passerà a quelli su persone in salute, con la prospettiva di compierne in futuro sugli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale. Nel frattempo continuerà a fare ricerca sull’ipotermia terapeutica e anche su altre possibili forme di “ibernazione”, prima fra tutte il letargo di molti animali, su cui ancora si sa molto poco. È una condizione che riduce di un quarto il metabolismo, abbassa la temperatura corporea e rallenta la frequenza cardiaca fino a qualche battito per minuto. Può durare mesi e ha poco a che vedere con il sonno, come comunemente si pensa. Un’altra caratteristica del letargo è che, quando sono in questa condizione, gli animali non urinano né defecano perché le sostanze nutritive assunte vengono sfruttate più del solito. Tipi diversi di animali, dagli orsi ad alcuni serpenti, vanno in letargo, ma gli scienziati non hanno trovato nessun gene comune che possa essere ritenuto responsabile di questa capacità. Dunque non è chiaro se gli esseri umani possano imparare a loro volta ad andare in letargo.

Quando Bradford parla dello studio di Spaceworks cita anche la possibilità di usare l’ipotermia terapeutica per un viaggio su Marte, che al momento è la più probabile destinazione di un futuro viaggio su un altro pianeta, sia per la sua vicinanza alla Terra sia per le sue caratteristiche. Qualsiasi altro pianeta del Sistema solare non si presterebbe a una missione umana, mentre degli esopianeti, cioè i pianeti che orbitano attorno ad altre stelle, non sappiamo ancora abbastanza. Nell’ambiziosissimo piano dell’imprenditore Elon Musk (amministratore delegato di SpaceX) per colonizzare Marte nei prossimi decenni non si parla di ibernazione o cose simili perché con le tecnologie attuali per arrivare sul quarto pianeta del Sistema solare ci vorrebbero dai sei ai nove mesi, anche meno secondo il progetto di Musk: un tempo troppo breve per considerare una ibernazione alla Passengers. Per Bradford invece ha senso pensare all’ibernazione anche per quanto riguarda i relativamente brevi viaggi su Marte, e non solo per future possibili spedizioni oltre il Sistema solare. Per chi ha visto Passengers è necessario chiarire un punto: l’ibernazione per come è studiata in questo momento non è pensata per mantenere giovani gli astronauti, come mettendo in pausa la loro vita, ma per ridurre i costi del viaggio.

Per colonizzare un pianeta non basterebbe un equipaggio di sei astronauti, ma servirebbero centinaia di esseri umani e per trasportarli tutti senza usare un numero eccessivo di astronavi o senza renderle eccessivamente pesanti, l’ipotermia potrebbe essere una soluzione. Se gli astronauti viaggiassero solo a gruppi di sei, servirebbero 17 astronavi per portare su Marte cento persone contemporaneamente o un’astronave con ambienti per l’equipaggio grandi 17 volte quelli di una da sei: secondo i calcoli di Spaceworks con l’ipotermia si potrebbe ridurre di 500 tonnellate la massa dell’astronave più grande. Per ora il progetto di Spaceworks si chiama Mars Transfer Habitat e prevede di costruire un mezzo di trasporto con tre diversi ambienti, due dei quali ospiterebbero 48 futuri coloni in stato di ipotermia. Nel terzo ambiente, più piccolo, starebbero quattro astronauti svegli e operativi, pronti a prendersi cura degli altri in caso di emergenza.

L’ibernazione come quella di Passengers potrebbe restare confinata alla fantascienza per sempre. Quartz dice che anche in un futuro in cui gli esseri umani potrebbero andare oltre il Sistema solare in viaggi lunghissimi, l’ibernazione potrebbe non essere necessaria. Le cose potrebbero andare in modo più simile a come è mostrato in un altro recente film di fantascienza, Interstellar. Il fisico teorico del CERN di Ginevra John Ellis in un’occasione ha spiegato: «La relatività di Einstein rende perfettamente possibile la colonizzazione dell’Universo. Pensiamo ad Alpha Centauri, una stella distante poco più di 4,3 anni luce da noi. Se riuscissimo ad accelerare un’astronave fino allo 0,8 della velocità della luce, ad esempio, la dilatazione temporale entrerebbe in gioco. Il viaggio durerebbe più di cinque anni secondo gli orologi terrestri, ma solo qualche mese per le persone a bordo sull’astronave. Più andremo vicini alla velocità della luce, più il viaggio sarà corto per gli astronauti».