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  • Venerdì 27 gennaio 2017

Con Trump ci aspettano quattro anni così?

Gli annunci contraddittori sul muro al confine col Messico e le dimissioni al Dipartimento di Stato sono le ultime notizie di una settimana molto movimentata alla Casa Bianca

Donald Trump (NICHOLAS KAMM/AFP/Getty Images)
Donald Trump (NICHOLAS KAMM/AFP/Getty Images)

I primi giorni di un presidente statunitense dopo l’insediamento sono sempre molto intensi: la nuova amministrazione vuole dare l’impressione di non perdere tempo e mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, e il lungo periodo di transizione che separa le elezioni dall’insediamento fa sì che molti piani e progetti siano pronti per essere eseguiti. Nel caso di Donald Trump, però, quest’intensità si è fatta particolarmente evidente e marcata: e si è sommata a liti con i giornalisti, dichiarazioni fatte e poi smentite, bugie, retroscena e commenti molto forti. Soltanto nelle ultime 24 ore, per esempio, Trump ha detto che «la tortura funziona» e che intende ripristinarla negli interrogatori della CIA, mentre il suo principale stratega Stephen Bannon – ex capo di un sito di news di estrema destra – ha detto che i media «dovrebbero tenere la bocca chiusa». E non è finita, sempre per restare alle ultime 24 ore.

Le discussioni sulla costruzione del muro al confine col Messico, un progetto promesso da Trump in campagna elettorale e il cui costo è stato stimato in 20 miliardi di dollari, hanno già provocato le prime conseguenze. Giovedì infatti l’amministrazione Trump ha mostrato di non avere ancora le idee troppo chiare su come fare il muro e su che soldi usare. Trump aveva firmato un ordine esecutivo per iniziare la progettazione del muro due giorni fa, durante una visita al Dipartimento della sicurezza nazionale. Dopo avere suggerito in diverse occasioni che il Messico si dovesse fare carico del costo del muro – proposta rifiutata altrettante volte dal governo messicano, che non è neppure d’accordo sulla costruzione di un muro tra i due paesi – il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha detto che il progetto sarebbe stato finanziato da una tassa del 20 per cento imposta su tutti i beni messicani importati dagli Stati Uniti. Spicer si è corretto poco dopo, dicendo che quella della tassa era solo un’idea, che la sua intenzione non era fare veramente una nuova proposta e che comunque la tassa del 20 per cento in futuro potrebbe diventare parte di un più ampio piano di tassazione sulle importazioni – non solo dal Messico – già sostenuto da alcuni Repubblicani alla Camera.

La soluzione della tassa al 20 per cento, ha scritto il New York Times, avrebbe avuto un impatto enorme sull’economia americana, sui suoi consumatori e sui suoi lavoratori, aumentando nettamente il prezzo dei beni importati o in alternativa riducendo i profitti delle compagnie produttrici dei beni tassati. Una mossa di questo tipo avrebbe potuto anche spingere altri paesi a rispondere con misure simili, avviando una guerra commerciale di più grandi dimensioni. Paul Krugman, editorialista del New York Times e premio Nobel per l’economia – ha commentato la vicenda scrivendo: «L’incidente della tassa messicana è veramente incredibile, perché mostra disfunzionalità, ignoranza e incompetenza su diversi livelli».

Prima ancora delle dichiarazioni di Spicer, il Messico aveva mostrato di non avere preso bene la polemica sul muro. Giovedì il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha cancellato il suo viaggio ufficiale a Washington che era fissato per martedì prossimo e che sarebbe stato il primo incontro tra i due presidenti. Trump e Peña Nieto avrebbero dovuto parlare di immigrazione, di commercio e di cooperazione nella guerra al narcotraffico. La ultime mosse di Trump, ha scritto il Washington Post, hanno riacceso vecchi rancori in Messico, un paese che nel corso della sua storia «ha spesso subìto atti di minaccia e bullismo dal suo vicino più ricco e potente», che tra le altre cose hanno incluso due invasioni: «La diffidenza verso gli americani è stata in gran parte messa da parte da una generazione di leader messicani che hanno perseguito politiche pragmatiche e interessi economici reciproci sia con i Repubblicani che con i Democratici statunitensi», ma le cose ora potrebbero cambiare.

Giovedì c’è stato anche un altro sviluppo sulla nuova amministrazione Trump. Diversi funzionari del dipartimento di Stato il cui incarico è sotto il diretto controllo della Casa Bianca hanno dato le dimissioni dopo avere ricevuto una comunicazione che diceva loro che non sarebbero stati confermati in quegli incarichi. Anche se tecnicamente non è un licenziamento, Trump ha deciso di rimuovere i responsabili di 13 divisioni del dipartimento di Stato, un numero molto alto se paragonato al passaggio di consegne delle passate amministrazioni, quando la maggior parte dei diplomatici del dipartimento di Stato rimanevano al loro posto. Non è ancora chiaro come sarà strutturato il nuovo dipartimento di Stato, né come sarà la politica estera dell’amministrazione Trump. La settimana prossima intanto entrerà in carica Rex Tillerson, il nuovo segretario di Stato, mentre la Casa Bianca deve ancora decidere chi sarà il suo vice.

Oggi è venerdì, è passata una settimana dall’insediamento di Trump: nel frattempo ci sono stati anche gli ordini esecutivi sull’aborto e il TPP, il congelamento delle assunzioni nel governo federale, le liti con la stampa sulla partecipazione alla cerimonia di insediamento (e le polemiche sui cosiddetti “fatti alternativi”), il rilancio dei progetti di costruzione di due contestati oleodotti e la decisione di interrompere qualsiasi tipo di comunicazione pubblica dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA). La settimana prossima arriverà la nomina di un giudice al seggio vacante della Corte Suprema. Di norma, passate le prime settimane di grande attivismo, l’agenda legislativa dei presidenti si sposta al Congresso, con tempi più lunghi e trattative dettagliate e oscure, e il racconto della stampa si fa meno frenetico; nel caso di Trump, un po’ per il suo stile e un po’ per i suoi progetti, la maggior parte degli osservatori e analisti concorda sul fatto che quel momento possa non arrivare.