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  • Domenica 22 gennaio 2017

Perché la Spagna non ha populisti di destra

È l'unico grande paese europeo dove non esiste un forte partito di destra radicale: c'entrano la sua storia e alcune caratteristiche uniche

(AP Photo/Francisco Seco)
(AP Photo/Francisco Seco)

Il Financial Times ha pubblicato una lunga inchiesta in cui il giornalista Tobias Buck cerca di capire come mai in Spagna, nonostante la grave crisi economica e l’alto numeri di stranieri residenti nel paese, i partiti populisti di destra non abbiano ottenuto fin qui successi e consensi rilevanti, come accaduto invece in tanti altri paesi europei. La risposta, conclude Buck, ha a che fare con alcune caratteristiche uniche del paese, che sono impossibili da replicare fuori dalla Spagna.

Questa situazione “unica” della Spagna è emersa con particolare chiarezza durante le ultime elezioni politiche, quelle del giugno del 2016, che sono andate bene per la sinistra radicale e il centrodestra moderato. Tra i partiti spagnoli, quello che più somiglia ai partiti di destra populista che stanno avendo successo nel resto d’Europa si chiama Vox ed è stato fondato tre anni fa da Santiago Abascal, un ex politico locale del Partito Popolare, che in Spagna è il principale partito del centrodestra moderato. Poche settimane fa Vox ha annunciato il suo nuovo slogan: “Hacer España Grande Otra Vez” (“Fai tornare grande la Spagna”), una frase ripresa direttamente dalla campagna del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump: “Make America Great Again”.

I temi su cui si concentra il programma di Vox sono la chiusura delle frontiere, l’opposizione al multiculturalismo e al politicamente corretto: gli stessi della destra radicale europea, dal Fronte Nazionale francese all’Alternativa per la Germania tedesca. Come scrive Buck: «Quello che distingue Vox da questi altri movimenti è che Vox non ha ottenuto alcuna vittoria elettorale». Alle elezioni di giugno Vox ha ottenuto appena lo 0,2 per cento dei voti.

Questa mancanza di risultati, scrive Buck, è particolarmente sorprendente se si considera la situazione del paese. Dopo un lungo boom economico, la Spagna è entrata in una grave recessione nel 2008. La disoccupazione è aumentata e rimane tra le più alte d’Europa. Per reagire alla crisi il governo ha imposto severe misure di austerità e tagli alla spesa. Politici e opinione pubblica hanno spesso imputato queste misure alle pressione dell’Unione Europea e ai suoi “burocrati” (un tipo di critiche che conosciamo bene anche in Italia). Inoltre, negli anni precedenti alla crisi, gli stranieri residenti in Spagna sono cresciuti moltissimo, passando dal 3 per cento della popolazione nel 1998 al 13 per cento nel 2008.

Invece che portare a una crescita della destra radicale, nota Buck, questa crisi è stata sfruttata dalla sinistra. Podemos, un partito di sinistra radicale, ha ottenuto il 21 per cento alle elezioni di giugno, mentre l’anno prima era riuscito a far eleggere i suoi sindaci nelle due principali città spagnole, Madrid e Barcellona. Podemos, scrive Buck, è un partito dai toni molto populisti e anti-establishment, ma le sue somiglianze con gli altri movimenti radicali europei finiscono qui: i leader di Podemos rivendicano le radici di sinistra del partito, mentre la sua base elettorale è composta soprattutto da giovani istruiti dei centri urbani (e non dagli abitanti poco istruiti delle aree rurali, che di solito sostengono i partiti di destra radicale), aperti all’immigrazione e favorevoli alla permanenza della Spagna nell’Unione Europea.

Non sono solo gli elettori di Podemos a sostenere l’integrazione europea: nonostante l’austerità e i tagli degli ultimi anni, tutti i sondaggi mostrano che gli spagnoli rimangono tra i più europeisti in Europa. Questo si spiega almeno in parte col fatto che la Spagna è stata per anni un percettore netto di fondi europei, cioè riceveva dall’Unione più di quanto versava. Soltanto negli ultimi anni contributi versati e ricevuti stanno iniziando a riallinearsi (l’Italia, invece, è da sempre un contributore netto: versa all’Europa più di quanto riceve).

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Secondo Buck non c’è un’unica causa per spiegare l’eccezionalità della Spagna. L’apparente “impermeabilità” del paese ai populismi di destra si spiegherebbe con una serie di cause storiche e culturali uniche nel paese. Diversi ricercatori, per esempio, indicano la peculiarità dell’immigrazione ricevuta dalla Spagna, fatta in buona parte da cittadini provenienti dall’America Latina, con una cultura simile a quella spagnola. È un fenomeno importante ma che non va sopravvalutato, comunque: per quanto una parte significativa degli stranieri giunti in Spagna sia arrivata da paesi cattolici di lingua spagnola, come Ecuador e Colombia, un terzo dei migranti proviene da Romania e Marocco.

Un altro elemento che viene spesso indicato è il rapporto che gli spagnoli hanno con le migrazioni. Numerosi spagnoli lasciarono il paese nel corso degli anni Sessanta e molti altri lo hanno fatto durante la recente crisi economica: entrambi periodi più recenti rispetto alle ultime migrazioni di massa partite da paesi come l’Italia. Altri paesi con forti movimenti di destra, per esempio Francia e Regno Unito, non hanno sperimentato significative emigrazione negli ultimi anni. Gli spagnoli, quindi, hanno un ricordo molto più vicino di cosa significa essere costretti a lasciare il proprio paese per ragioni economiche e sarebbero quindi più portati a essere tolleranti con i migranti.

Queste ragioni, però, ammette Buck, non sono sufficienti a spiegare l’assenza in Spagna di forti movimenti di estrema destra. C’è certamente una componente di casualità: la destra radicale non è riuscita a produrre e trovare leader carismatici, cosa che invece è riuscita alla sinistra. Ma ci sono anche altre cause, che hanno meno a che fare con le coincidenze e più con la storia del paese. Tra i paesi europei, la Spagna è quella in cui più recentemente è terminata una dittatura: il regime è finito con la morte del dittatore Francisco Franco nel 1975, e la transizione alla democrazia è stata completata soltanto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il ricordo ancora vivo della dittatura ha reso difficile per la destra radicale ricorrere ai suoi slogan più efficaci: il nazionalismo e l’appello all’identità nazionale. Secondo Carmen González Enríquez, analista del centro studi Real Instituto Elcano: «L’abuso di simboli nazionali e dei riferimenti all’identità nazionale durante il regime franchista ha causato una reazione che ancora persiste. L’opposizione democratica al regime ha rifiutato l’esibizione dei simboli nazionali, dall’inno nazionale alla bandiera, e il nazionalismo spagnolo è stato completamente escluso dalla loro retorica. Al posto della Spagna, i democratici hanno scelto di guardare all’Europa».

Appellarsi alla retorica nazionale presenta un altro problema in Spagna: è destinato inevitabilmente a scontrarsi con il forte regionalismo di circa un terzo della popolazione, quella che abita in Catalogna e nei Paesi Baschi, due aree dove sono fortissimi i movimenti indipendentisti. Come scrive Buck: «Molti baschi e catalani rivendicano un’identità che non solo è alternativa, ma è in netta contrapposizione a quella spagnola». In altre parole, usare slogan come “la Spagna agli spagnoli” rischia di alienare il consenso di tutti coloro che si sentono catalani o baschi prima che spagnoli. In maniera speculare, il regionalismo ha permesso all’attuale primo ministro, il leader del Partito Popolare Mariano Rajoy, di tenere unito il centrodestra senza bisogno di ricorrere a una retorica anti-immigrati. Secondo Cristóbal Rovira Kaltwasser, uno scienziato politico dell’università Diego Portales di Santiago del Cile, «il Partito Popolare è riuscito a rimanere il partito egemone della destra in parte grazie a un messaggio molto forte di difesa dell’unità della Spagna. Si tratta di un punto chiave per gli elettori di destra».

Un’ultima caratteristica particolare della Spagna, secondo Buck, è il suo particolare tipo di welfare. Lo Stato fornisce assistenza sanitaria gratuita, scuole e infrastrutture facilmente accessibili, ma i trasferimenti diretti di denaro e l’edilizia popolare sono quasi assenti. Secondo José Fernández-Albertos, un analista del centro ricerca CSIC di Madrid, «questi due settori sono proprio quelli dove è più visibile il trasferimento di risorse da una parte della popolazione ad un’altra». In altre parole gli spagnoli più poveri non si trovano in competizione con gli immigrati per l’accesso ai sussidi statali e all’edilizia pubblica, e questo evita i conflitti.

Al termine della sua inchiesta, le conclusioni di Buck non sono incoraggianti per quei leader politici che desiderano imitare la Spagna per arrestare la crescita della destra populista nei loro paesi. Le caratteristiche che sembrano rendere “unica” la Spagna non sembrano imitabili nel resto d’Europa, perché legate alla storia e alla cultura specifiche del paese. L’unico tratto che sembra possibile esportare, un welfare che evita il sorgere di conflitti tra gli stati più poveri della popolazione, non è facile e forse nemmeno auspicabile. Come conclude amaramente Buck: «C’è molto da ammirare in Spagna, ma molto poco da imitare».