Perché non ci piace chi “predica bene e razzola male”

Per un motivo irrazionale, dice uno studio dell'Università di Yale: perché chi predica bene ci fa sentire peggiori

La ragione per cui abbiamo una bassa opinione di chi “predica bene e razzola male” è che ci fa credere di essere una persona virtuosa quando non lo è. È la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricerca del dipartimento di psicologia dell’Università di Yale: gli ipocriti non ci piacciono non perché non fanno ciò che predicano, o perché non hanno la forza di volontà per vivere secondo i propri ideali e si comportano in modo sbagliato sapendo che è sbagliato, ma perché appaiono bravi e corretti senza esserlo. Lo spiegano sul New York Times le studentesse Jillian Jordan e Roseanna Sommers e il professore David Rand, tra i membri del gruppo di ricerca e autori di uno studio intitolato Why Do We Hate Hypocrites? Evidence for a Theory of False Signaling, cioè “Perché odiamo gli ipocriti? Prove per una teoria dei segnali falsi”. Lo studio è stato fatto grazie a quattro test sottoposti a centinaia di persone reclutate grazie ad Amazon Mechanical Turk, il servizio di Amazon che permette di proporsi per piccole e semplici mansioni da svolgere attraverso internet: i test chiedevano alle persone di esprimere un giudizio su situazioni tipo in cui qualcuno si comporta in modo ipocrita.

Tutti attribuiscono un valore negativo all’ipocrisia ma, come scrivono Jordan, Sommers e Rand, l’avversione per l’ipocrisia «costituisce un enigma psicologico». Per spiegarlo gli studiosi fanno l’esempio di un collega che in ufficio invita tutti a sforzarsi per rispettare l’ambiente, per esempio accendendo le luci solo se necessario e stampando i documenti sempre su fronte e retro. Se scopriamo che questo collega a casa sua non segue i buoni consigli che dà in ufficio, tendiamo a pensare che questa persona non possa permettersi di darci delle indicazioni, anche se sono corrette. Il problema è che questo atteggiamento non è razionale. Se diamo importanza alla difesa dell’ambiente, dovremmo essere contenti che il nostro collega la promuova, a prescindere dalle sue azioni come singolo: «Dal punto di vista logico non c’è nulla di disonesto nell’atto di condannare un’azione che si compie».

Jordan, Sommers e Rand spiegano che l’enigma psicologico si chiarisce se si considera il “predicare bene” come una tattica per farsi una buona reputazione: di solito quando qualcuno ci dice che “è moralmente sbagliato fare questa cosa”, tendiamo a dare per scontato che quella persona stia descrivendo il proprio comportamento. Quindi quando scopriamo che la persona è ipocrita ci sentiamo ingannati. Ci dà fastidio che la persona ipocrita appaia migliore di come è in realtà, mentre critica persone che nei fatti non sono peggiori di lui. Secondo i test del gruppo di ricerca, si tende anche a giudicare peggio una persona che dice cose giuste ma fa cose sbagliate rispetto a chi invece dice apertamente di comportarsi in modo sbagliato.

Della questione dell’ipocrisia, e in particolare dell’uso scorretto dell’espressione idiomatica “predicare bene e razzolare male” nel dibattito pubblico italiano, si era occupato anche Luca Sofri, peraltro direttore del Post, nel suo libro Un grande paese. Sofri spiega che i modi in cui generalmente viene usata questa espressione – per dire che una certa predica non è credibile perché il suo autore non è coerente con essa, o per dire che una certa predica sia cattiva perché contraddetta delle opere del suo autore – sono sbagliati:

Nella frase di cui stiamo parlando «predicare bene» vuol dire invece predicare bene, e «bene» vuol dire bene, punto. Chi predica bene fa una cosa buona, qualunque opera lo contraddica. Non si capisce infatti perché un cattivo razzolamento debba diminuire la bontà di una predica. Se io insegno ai miei bambini a chiedere «per favore», e poi non lo faccio io stesso, il mio insegnamento non sarà meno buono per questo: tutt’al più sarà meno efficace perché non avrà accanto l’esempio, ma non meno giusto. E sarà sempre meglio che razzolare male predicando male, che è quello che pretenderebbero certe vestali della coerenza, gente che apprezza un ladro che insegni al mondo a rubare più di uno che ammetta che rubare è sbagliato. Insomma, chiedere «per favore» resta una cosa giusta, chiunque ve lo insegni e comunque si comporti chi ve lo insegna. […]

Il secondo travisamento dell’espressione «predicare bene e razzolare male» è quello che pretende non solo che l’esempio sia più importante della predica – e questo sarebbe un uso corretto – ma addirittura che annulli la bontà della predica, rendendola cattiva. In poche parole: dal momento che rubi, la tua tesi che rubare sia male è sbagliata. E soprattutto «zitto, tu, ladro!». Questo inganno dialettico è abusatissimo per contraddire le asserzioni più assennate del mondo, perché riesce sempre a togliere credibilità a una tesi togliendo credibilità a chi l’ha espressa, il quale difficilmente sarà senza peccato: garantisce successi assicurati, forzando il vecchio «scagli la prima pietra» (che ha fatto un sacco di danni disegnando come lapidatore sanguinario chiunque poi si sia azzardato a fare obiezioni senza essere un santo). E in più azzera il valore di principi e regole universali (o quasi universali: nessuna regola è davvero assoluta) sulla base di eventi e di accadimenti singolari che non li abbiano rispettati. […]

C’è un secondo argomento per difendere i preziosi buoni insegnamenti dagli attacchi strumentali di chi non vuole vedere definito ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ed è che predicare bene è anche di per sé razzolare bene. Chi predica bene ha capito quale sia il bene, e questo è già un risultato notevole e fecondo.