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  • Sabato 31 dicembre 2016

La lettera dei premi Nobel che criticano Aung San Suu Kyi

La ministra degli Esteri birmana – premio Nobel anche lei – è accusata di non fare abbastanza per evitare la persecuzione di una minoranza religiosa

Alcuni attivisti bengalesi durante una protesta a Dacca contro le violenze subite dai rohingya in Birmania
(MUNIR UZ ZAMAN/AFP/Getty Images)
Alcuni attivisti bengalesi durante una protesta a Dacca contro le violenze subite dai rohingya in Birmania (MUNIR UZ ZAMAN/AFP/Getty Images)

Un gruppo di 23 attivisti, formato da premi Nobel ed ex ministri di vari paesi del mondo, ha scritto una lettera aperta al Consiglio di Sicurezza dell’ONU affinché intervenga per porre fine alla crisi umanitaria dei rohingya, una minoranza religiosa di fede musulmana che vive in Birmania. Tra i firmatari della lettera ci sono anche l’ex presidente del Consiglio italiano Romano Prodi e l’ex ministra degli Esteri Emma Bonino. Nella lettera viene criticata soprattutto la ministra degli Esteri birmana Aung San Suu Kyi, nota attivista per i diritti umani e a sua volta premio Nobel per la pace, per non essere ancora intervenuta per fermare la sanguinosa repressione. Quello che sta succedendo, scrivono i firmatari, «equivale a un’azione di pulizia etnica, nella quale si stanno compiendo crimini contro l’umanità».

I rohingya sono una popolazione poverissima proveniente dal Bangladesh, ma che vive in Birmania da molte generazioni. Sono considerati una tra le minoranze più perseguitate al mondo: di religione musulmana, vivono in un paese a maggioranza buddista e sono poco meno di un milione (gli abitanti totali della Birmania sono 50 milioni). La maggior parte di loro vive nello stato di Rakhine, nella parte occidentale del paese, al confine con il Bangladesh. Nel 1982, la giunta militare al potere li privò della cittadinanza birmana, accusandoli di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui la Birmania perse l’indipendenza e divenne una colonia britannica. I rohingya sostengono invece di essere discendenti dei mercanti musulmani arrivati in Birmania via mare durante il medioevo. Senza la cittadinanza birmana, i rohingya sono considerati dei cittadini di serie B: hanno grosse limitazioni nell’accesso all’istruzione – motivo per cui molti di loro hanno soltanto un’istruzione religiosa, a volte di tipo fondamentalista – alla sanità e al possesso di terreni.

La loro situazione già critica è peggiorata dal 2012, in seguito agli scontri violenti avvenuti nello stato di Rakhine tra loro e la maggioranza buddista di etnia rakhine. Lo scorso 9 ottobre, in seguito a un attentato sul confine tra il Bangladesh e la Birmania sono stati uccisi nove agenti di polizia birmani; sebbene le origini dell’attacco non siano ancora state chiarite, i militari birmani hanno dato la colpa a un gruppo rohingya. Secondo i firmatari della lettera aperta, la risposta dall’esercito dopo l’attentato è stata sproporzionata: si parla infatti di centinaia di persone uccise dai militari, tra cui molti bambini, di donne stuprate, case bruciate e moltissimi civili arbitrariamente arrestati.

Quello che sta succedendo in Birmania, si legge nella lettera, potrebbe trasformarsi in un genocidio paragonabile a quelli successi in Ruanda, Darfur, Bosnia e Kosovo. I firmatari sono particolarmente critici con Aung San Suu Kyi, che nonostante i numerosi appelli non ha fatto nulla per assicurare alla minoranza rohingya il pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Suu Kyi non è capo del governo in Birmania ma ministro degli Esteri. Tuttavia, essendo considerata di fatto la leader del paese, i firmatari si rivolgono a lei ritenendo che sia sua «la responsabilità guidare la Birmania, e farlo con coraggio, umanità e compassione».