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  • Domenica 25 dicembre 2016

Trump chiuderà la sua fondazione benefica

Per evitare conflitti di interesse con la carica di presidente, anche se è in corso da mesi un'indagine su presunte irregolarità

Donald Trump, New York, 20 ottobre 2016 
(MANDEL NGAN/AFP/Getty Images)
Donald Trump, New York, 20 ottobre 2016 (MANDEL NGAN/AFP/Getty Images)

Sabato Donald Trump, il presidente eletto degli Stati che entrerà in carica il 20 gennaio, ha detto che chiuderà la sua fondazione di beneficenza, la Donald J Trump Foundation, per evitare «anche solo il sospetto» di un conflitto di interessi che potrebbe derivare dal suo incarico. Trump ha annunciato la decisione, anticipata dal New York Times, in un comunicato stampa in cui ha aggiunto che continuerà a perseguire «un forte impegno nella filantropia» in altri modi. La chiusura della fondazione dovrà essere approvata dal procuratore generale di New York, che stava già indagando sulla stessa fondazione e che a ottobre aveva ordinato la sospensione di qualsiasi attività di raccolta fondi.

Della fondazione benefica di Trump si parla da mesi, non tanto per eventuali conflitti di interesse ma per presunte irregolarità che Trump che avrebbe commesso. Secondo l’indagine del procuratore, la registrazione della fondazione non sarebbe avvenuta in modo corretto e di conseguenza la Trump Foundation non sarebbe stata sottoposta ai consueti controlli delle associazioni che chiedono donazioni ai privati. Le accuse più gravi derivano però da un’inchiesta del giornalista del Washington Post David Fahrenthold. Fahrenthold sostiene che Trump potrebbe aver violato le leggi americane contro il cosiddetto “self-dealing“, che vietano a chi è capo di organizzazioni senza scopo di lucro di usare donazioni per avvantaggiare se stesso o le proprie aziende. In particolare, stando alle interviste e ai documenti giuridici analizzati da Fahrenthold, Trump avrebbe utilizzato 258 mila dollari (circa 246 mila euro) per risolvere controversie legali che coinvolgevano le sue aziende.

In una delle cause considerate, risalente al 2007, il resort di Trump Mar-a-Lago Club aveva accumulato 120mila dollari in multe non pagate alla città di Palm Beach in Florida. Venne raggiunto un accordo in cui la città rinunciava al pagamento delle multe a patto che il resort donasse 100mila dollari a un ente benefico per i reduci di guerra. Stando ai registri fiscali, la donazione provenne però dalla Trump Foundation. In altri casi Trump avrebbe utilizzato i soldi della fondazione per interessi personali, come aver comprato un autoritratto di un metro e ottanta costato 20.000 dollari o investito 5.000 dollari per promuovere la sua catena di alberghi nel 2013.

Sempre nel 2013 Trump aveva donato attraverso la fondazione 25.000 dollari a un gruppo politico che sosteneva il procuratore generale Repubblicano della Florida, Pamela Bondi. Le leggi fiscali americane vietano alle organizzazioni non a scopo di lucro di fare donazioni a gruppi politici, e i collaboratori di Trump spiegarono che la donazione era stata fatta per errore da un dipendente della fondazione. La donazione arrivò nello stesso periodo in cui l’ufficio di Bondi stava valutando se avviare un’indagine sulle accuse di truffa alla Trump University, che poi non venne mai aperta. Alla fine l’Agenzia delle entrate statunitense multò Trump, imponendogli una sanzione di 2.500 dollari e l’obbligo di restituire alla fondazione i 25.000 dollari.

Negli Stati Uniti non è raro che un imprenditore, un politico o un personaggio in vista – come Bill Gates – abbia una fondazione benefica a suo nome, con cui di solito finanzia cause umanitarie. Trump fondò la sua nel 1987 per destinare in beneficenza parte dei ricavi di The Art of the Deal, la sua autobiografia – scritta in realtà dal giornalista Tony Schwartz – e sostanzialmente il libro che ha definito l’immagine pubblica di Trump. La fondazione funzionò “normalmente” almeno fino al 2008, sebbene con cifre molto ridotte; da quell’anno Trump smise di versare soldi – la sua ultima donazione è di 30mila dollari – e iniziarono una serie di donazioni in entrata e in uscita quantomeno sospette, come quelle denunciate appunto dal Washington Post.