Il test del DNA non è infallibile

Nonostante durante i processi sia considerata fonte di prove certe, l'analisi genetica funziona solo se fatta nel modo giusto: e spesso non succede

di Faye Flam – Bloomberg

(Idaho Press-Tribune via Idaho State Police via AP)
(Idaho Press-Tribune via Idaho State Police via AP)

Fidarsi ciecamente di qualsiasi forma di tecnologia può essere pericoloso, soprattutto in alcuni settori della scienza forense come il cosiddetto metodo dell’impronta genetica. Quando, per esempio, la polizia ha delle “prove genetiche” contro un sospettato, la maggior parte dei tribunali le prenderà come prove della sua colpevolezza. Nonostante la tecnologia per l’analisi del DNA si sia affinata molto rispetto a quando fu introdotta nei tribunali negli anni Novanta, però, capita che i laboratori di criminologia lavorino con tracce sempre più piccole – che a volte si riducono soltanto a qualche molecola – traendone poi conclusioni incoerenti o errate.

Ci sono buone ragioni per pensare che le prove del DNA abbiano fatto finire in prigione delle persone per reati che non avevano commesso. Questa è la conclusione di un recente rapporto commissionato dal President’s Council of Advisors on Science and Technology (PCAST) – un ente americano che fornisce consulenza al presidente degli Stati Uniti su scienza e tecnologia – che ha messo in discussione la pratica sempre più comune di analizzare miscele di DNA di persone diverse. Oggi la polizia può raccogliere il DNA non solo da macchie di sangue o di altri fluidi corporei, ma anche da tracce di cellule lasciate da persone che sono entrate in contatto con maniglie delle porte, armi da fuoco o altri oggetti associati con un reato. Spesso i cosiddetti campioni di “touch DNA”, DNA da contatto, contengono una combinazione di materiale genetico di diverse persone che hanno avuto a che fare con quegli oggetti.

Il rapporto non si è concentrato soltanto sull’analisi del DNA, ma ha esaminato anche una serie di diverse tecniche forensi, come l’analisi dei segni lasciati dai morsi e quella delle impronte digitali, scoprendo che molte di queste tecniche hanno lacune dal punto di vista scientifico. I laboratori avevano risultati incoerenti e sottostimavano di molto la probabilità che le loro analisi fossero sbagliate. Ma a rendere particolarmente preoccupanti i problemi legati all’analisi del DNA è la grande fiducia che i tribunali ripongono nell’accuratezza di questo metodo. Le analisi delle miscele di DNA «non sono come le tavolette che si usano nelle sedute spiritiche: non sono spazzatura», ha detto David Kaye, professore di giurisprudenza alla Penn State University e autore di diversi libri sulla scienza forense. Kaye insomma dice che gli scienziati possono estrarre informazioni utili da queste miscele, ma concorda sul fatto che oggi manchi un protocollo affidabile e coerente per interpretare quelle informazioni. «La scienza forense non è regolamentata come i laboratori clinici», ha detto, «ma condanna a morte le persone».

Il DNA è affidabile quando viene analizzato correttamente, e quando il campione è abbastanza ampio e proviene da una persona sola. Semplificando molto, il sistema usato tradizionalmente prevede l’analisi di 13 parti diverse dei cromosomi, in cui il codice genetico tende a ripetersi in brevi sequenze. Il numero di queste sequenze in ognuno di questi punti varia da persona a persona. Se due campioni hanno lo stesso numero di sequenze in tutti e 13 i punti, la possibilità che provengano da persone diverse è una su diversi miliardi. Quando il DNA in un campione è misto, però, le cose cambiano e trarre conclusioni diventa più complicato. Il rapporto cita diversi casi sorprendenti, tra cui quello di un procuratore che negli Stati Uniti aveva detto alla giuria che le possibilità di un errore in una corrispondenza del DNA erano una su 1,1 miliardi. Da un’analisi successiva delle prove era però emerso che la possibilità era «più vicina a essere una su due».

Secondo il genetista molecolare Greg Hampikian la cattiva analisi della miscela di DNA fu la causa dell’ingiusta condanna di un uomo chiamato Kerry Robinson nello stato della Georgia. Una donna che era stata stuprata da diversi uomini identificò uno dei sospettati, a cui venne poi offerto un accordo nel caso avesse a sua volta identificato i suoi complici. Dopo aver fatto diverse ipotesi l’uomo nominò Robinson. Nonostante la vittima non fosse riuscita a identificarlo, Robinson fu condannato e finì in carcere sulla base della prova del DNA. Hampikian, che lavora come volontario a capo dell’Idaho Innocence Project, esaminò il DNA concludendo che non solo non condannava Robinson, ma lo scagionava. Hampikian decise di usare il caso per dimostrare una tesi più ampia, e portò gli stessi campioni di DNA a un altro laboratorio chiedendo a 17 esperti diversi di analizzarli. Solo uno di loro concluse che il DNA avrebbe potuto essere di Robinson, mentre tutti gli altri dissero che l’analisi non era risolutiva o lo scagionava. Lo studio di Hampikian viene citato nel rapporto del PCAST.

Secondo Hampikian un altro problema è che l’uso di campioni minuscoli di DNA, che spesso sono composti solo da qualche cellula, rende difficile evitare la contaminazione. Fu un’analisi di piccole tracce di DNA a portare alla famosa condanna della studentessa americana Amanda Knox, che venne accusata dell’omicidio di Meredith Kercher, sua coinquilina a Perugia. Knox e il suo ragazzo dell’epoca, Raffaele Sollecito, furono condannati sulla base di alcuni frammenti di DNA apparentemente appartenuto a Kercher, trovati su un coltello proveniente da un cassetto della cucina di Sollecito. Alcuni scienziati indipendenti italiani riesaminarono poi il caso in appello concludendo che quasi certamente il DNA era stato spostato per via della contaminazione. La sentenza contro Knox – che nel frattempo aveva già scontato quattro anni in carcere – venne ribaltata.

Per illustrare questo problema Hampikian ha fatto un esperimento: ha chiesto ai suoi studenti della Boise State University di raccogliere alcune lattine di bibite lasciate in un ufficio dopo pranzo e metterle in delle buste per le prove. Gli studenti hanno poi condotto un’analisi del DNA su dei coltelli appena comprati, su cui è apparso il DNA di alcuni membri della facoltà. Gli studenti erano le uniche persone a essersi mai avvicinati ai coltelli.

La scienza è sempre intrinsecamente incerta, ma i bravi scienziati sanno come misurare ed esprimere quest’incertezza. Hampikian, però, ha raccontato che spesso sente usare dai periti espressioni come «alto grado di certezza scientifica» o «corrispondenza». Il suo punto di vista viene riflesso anche nel rapporto del PCAST, in cui si dice che «non è scientificamente giustificabile» sostenere che una qualsiasi conclusione possa essere «certa al cento per cento» o definire il tasso di errore come «pari a zero», «essenzialmente pari a zero» o «trascurabile».

Nonostante alcune persone abbiano definito le tecniche descritte nel rapporto come “scienza spazzatura”, nel rapporto questa espressione non viene mai usata. Né tanto meno viene consigliato di accantonare delle pratiche. Lo studio, invece, consiglia di svolgere dei test indipendenti per determinare l’efficacia delle tecniche.

Purtroppo sembra che a essere più entusiasti delle conclusioni del rapporto siano gli scienziati e non le forze dell’ordine. L’FBI ha detto che il rapporto porta avanti «affermazioni approssimative e non sostenute da prove», mentre l’Attorney General degli Stati Uniti – grossomodo l’equivalente del nostro ministro della Giustizia – Loretta Lynch ha risposto dicendo che «gli attuali standard giuridici in merito all’ammissibilità delle prove forensi sono basati su solidi dati scientifici». Il rapporto, tuttavia, è un regalo prezioso all’FBI da parte di eminenti scienziati. Entrambi, in fondo, sono per professione cercatori di verità. Gli scienziati sanno che gli errori sono inevitabili, e che una fiducia eccessiva può portarli fuori strada. Per questo hanno dei metodi per superare i pregiudizi, riconoscere l’incertezza e correggere i loro errori. Da questo punto di vista, il metodo scientifico offre una lezione alle forze dell’ordine: ammettere di poter sbagliare spesso è il primo passo per fare le cose nel modo giusto.

© 2016 – Bloomberg