La storia sulla diffusione dell’AIDS non è come ce l’hanno raccontata

A cominciare dal famoso "paziente zero" che avrebbe portato la malattia negli Stati Uniti, ma che fu identificato così per un errore di trascrizione

di Ariana Eunjung Cha – The Washington Post

Migliaia di persone partecipano a una marcia per la Sesta conferenza sull'AIDS, organizzata per sensibilizzare sulla malattia e chiedere maggiori fondi per le persone malate, San Francisco, California, 23 giugno 1990
(AP Photo/Eric Risberg)
Migliaia di persone partecipano a una marcia per la Sesta conferenza sull'AIDS, organizzata per sensibilizzare sulla malattia e chiedere maggiori fondi per le persone malate, San Francisco, California, 23 giugno 1990 (AP Photo/Eric Risberg)

La storia di come il “paziente zero” e l’AIDS siano arrivati a New York nel 1979 provocando un’epidemia in Nord America è stata raccontata così tante volte in modi così diversi da essere diventata per molte persone una verità accettata della nostra storia moderna. La storia inizia con un uomo, un giovane assistente di volo chiamato Gaetan Dugas, che si pensava avesse contratto la malattia fuori dagli Stati Uniti per poi infettare alcune delle persone con cui ebbe rapporti sessuali, che a loro volto l’avrebbero trasmessa poi ai loro partner sessuali, e così via, fino a riempire l’intero continente di gruppi di persone che morivano della misteriosa malattia. Nel libro del 1987 And the Band Played On, scritto dal giornalista americano Randy Shilts, oltre che in diverse ricostruzioni sui media, Dugas veniva descritto come una persona dalla vita sessuale movimentata, che si raccontava avesse riferito agli investigatori del Centers for Disease Control and Prevention (CDC) – l’ente americano che si occupa di salute pubblica – di avere avuto all’incirca 250 partner sessuali all’anno. È una storia affascinante, peccato che non sia propriamente vera.

In uno studio pubblicato mercoledì dalla rivista scientifica britannica Nature alcuni ricercatori hanno usato la tecnica del sequenziamento del genoma su alcuni campioni di sangue risalenti al periodo dei fatti, per tornare indietro nel tempo e ricostruire “l’albero genealogico” del virus con un livello di precisione inedito. Le scoperte fatte dai ricercatori sono notevoli, e sfatano diverse credenze popolari sull’origine e la diffusione del virus, aggiungendo nuove informazioni che spiegano come la malattia sia arrivata negli Stati Uniti. Lo studio, condotto da Michael Worobey della University of Arizona e Richard McKay della University of Cambridge, conferma la controversa teoria secondo cui il virus sarebbe arrivato negli Stati Uniti dai Caraibi (non facendo quindi il percorso inverso, come alcune persone hanno sostenuto). I ricercatori hanno anche scoperto che il primo focolaio dell’AIDS fu a New York, e non a San Francisco, e che il virus sembrava essere circolato lungo i confini americani per molto più tempo di quanto si presumeva, arrivando poi nel paese intorno al 1970, cioè circa dieci anni prima che ne venisse ufficialmente riconosciuto la presenza negli Stati Uniti, nel 1981.

La cartina qui sotto mostra i principali modelli di diffusione dell’HIV-1 sottotipo B – il principale sottotipo del virus che all’epoca fu trovato in uomini che avevano rapporti omosessuali e che segnò un punto di svolta nell’epidemia – dall’Africa verso Haiti e poi verso New York, da dove venne trasmesso in altre zone degli Stati Uniti. Gli anni indicati sulla cartina corrispondono alla data in cui si stima che il virus sia arrivato in quel determinato posto. «Dal punto di vista geografico c’è un segnale inequivocabile del fatto che questa linea di discendenza del virus si sia diversificata prima di spostarsi negli Stati Uniti», ha detto Worobey durante una conference call con dei giornalisti martedì, aggiungendo però che non è ancora chiaro come il virus sia poi arrivato negli Stati Uniti. «Potrebbe essere stato portato da una persona di qualsiasi nazionalità. O potrebbero anche essere stati degli emocomponenti: molti di quelli usati negli Stati Uniti negli anni Settanta arrivavano da Haiti», ha detto Worobey.

aids
(Nature)

Per lo studio sono stati analizzati campioni di siero che erano stati archiviati, alcuni vecchi di 40 anni, presi da altri studi interrotti diverso tempo prima. Uno degli studi era stato condotto su un uomo che ebbe rapporti omosessuali a New York e San Francisco, e altri due su uomini che rischiavano di contrarre l’epatite B. Una percentuale significativa dei campioni – dal 3,7 al 6,6 per cento a seconda dello studio – ha mostrato la presenza di anticorpi anti-HIV. I ricercatori ne hanno selezionati casualmente 20, per tentare di sequenziarli. Purtroppo molti campioni si erano deteriorati per via del lungo stoccaggio. I ricercatori hanno quindi passato diversi anni a sperimentare una serie di nuove tecniche per ricostruire e “amplificare” i frammenti virali. Alla fine, grazie a una tecnica ispirata a quella usata dagli scienziati per esaminare il DNA degli uomini di Neanderthal e di altre creature estinte, i ricercatori sono riusciti a completare il sequenziamento di otto campioni, cinque dei quali di pazienti di New York e tre da San Francisco, prelevati tra il 1978 e il 1979. Sono tra i campioni di HIV più vecchi mai prelevati.

I ricercatori hanno poi sequenziato separatamente il virus trovato nel paziente zero, scoprendo che il suo genoma HIV-1 sembrava essere quello «tipico» dei ceppi virali americani dell’epoca e che nello stesso periodo in cui l’uomo sembrava aver contratto il virus era presente un’ampia diversità genetica, segno del fatto che probabilmente il virus era nel paese e si stava evolvendo già da diversi anni. «È evidente che fu una delle migliaia di persone che contrassero il virus prima del riconoscimento ufficiale dell’HIV/AIDS», si legge in una nota supplementare pubblicata sempre da Nature.

I ricercatori hanno spiegato che all’epoca gli investigatori sanitari americani avevano chiamato l’uomo “Paziente O”, dove per “O” era intesa come lettera dell’alfabeto e non come “numero zero”, perché l’uomo veniva da “‘Out(side)-of-California“, fuori dalla California. Nella letteratura medica e nei media, però, la lettera venne confusa con il numero diventando nel tempo parte della mitologia intorno all’AIDS, nonostante i numerosi tentativi di alcuni scienziati che hanno provato a chiarire il ruolo dell’uomo nell’epidemia. Worobey, che è specializzato in evoluzione dei virus, e McKay, uno storico della scienza, hanno scritto che il loro studio dimostra come non ci siano «prove biologiche né storiche che confermino la credenza diffusa secondo cui quell’uomo fu la causa primaria dell’epidemia di HIV in Nord America». «Questa persona fu semplicemente una delle migliaia che contrassero l’HIV/AIDS prima che fosse riconosciuta», ha detto McKay.

I due ricercatori hanno parlato del pericolo dell’istinto di volere trovare un responsabile delle epidemie delle malattie infettive da parte dell’opinione pubblica, sottolineando come negli Stati Uniti spesso porti a individuare la causa negli stranieri. Questa tendenza risale al caso di Mary Mallon, una donna di origine irlandese che fu accusata della diffusione della febbre tifoide quando continuò a lavorare come cuoca dopo essere stata identificata come portatrice sana della malattia. All’inizio dell’epidemia di AIDS, Dugas – che era nato in Canada e sul cui conto vennero scritti articoli con titoli come “L’uomo che ci ha dato l’AIDS” – non fu l’unico a essere infangato. Nel 1989 il CDC inserì le persone di Haiti nei quattro gruppi “ad alto rischio” di contrarre il virus, insieme ai gay, chi faceva uso di eroina e gli emofiliaci, una classificazione che generò terribili atti di discriminazione nei confronti delle persone originarie di Haiti, come il divieto di accesso negli Stati Uniti o addirittura il negare ai loro figli e nipoti un lavoro, una casa e un’istruzione.

«Uno dei pericoli del focalizzarsi su un unico paziente zero quando si discute delle fasi iniziali di un’epidemia è il rischio di oscurare importanti fattori strutturali che potrebbero contribuire al suo sviluppo, cioè povertà, disuguaglianze giuridiche e culturali, barriere nell’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Questi elementi determinanti rischiano di essere trascurati se ci si concentra troppo in fretta su un paziente zero». Worobey ha aggiunto che è importante capire che il lavoro fatto dai ricercatori per rintracciare le origini dell’AIDS non equivale ad attribuire la responsabilità della sua diffusione a un individuo o un gruppo di persone. «Il virus pandemico proviene da primati non umani e presumibilmente circola nell’Africa sub-sahariana ormai da un secolo», ha detto Worobey, aggiungendo che «la linea di discendenza del virus di cui parliamo in questo studio, il cosiddetto sottotipo B dell’HIV-1 gruppo M, è solo uno dei molti rami di quell’albero evolutivo». «Nessuno», ha sottolineato Worobey, «dovrebbe essere accusato della diffusione di un virus di cui nessuno era nemmeno a conoscenza».

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