“Cosa significa perdere una guerra”

Fare cultura oggi in Italia significa in larghissima misura fare da mediatori, spiegatori, diffusori, traduttori di cultura prodotta in inglese, spiega Vincenzo Latronico

(EMMANUEL DUNAND/AFP/Getty Images)
(EMMANUEL DUNAND/AFP/Getty Images)

Vincenzo Latronico, scrittore, saggista e traduttore, si occupa molto del rapporto tra la diffusione dei contenuti culturali e i linguaggi usati, e ne ha scritto in una raccolta di articoli pubblicata dall’editore Minimum fax, spiegando l’indiscutibile e definitivo – ma contraddittorio – ruolo della cultura americana e della lingua inglese anche nella crescita e nello sviluppo di quelle di altri paesi, Italia compresa. Il suo saggio è stato anticipato dal mensile IL.

Una piccola biografia culturale:
Mi sono iscritto a Lettere nel 2003 perché volevo studiare Barthes e Foucault; nel 2008 ho iniziato un dottorato sull’ontologia matematica del filosofo americano Willard Van Orman Quine. Quell’anno ho pubblicato il mio primo romanzo, che parlava di un gruppo di ventenni che per varie ragioni (Erasmus, lavoro, troppo tempo libero) si ritrovavano a Parigi; tre anni dopo è uscito il secondo, che parlava di un gruppo di persone accomunate da un passato, più o meno reale, a Harvard. Per mantenermi traduco dall’inglese letteratura contemporanea e qualche classico meritevole di una nuova attenzione col consolidarsi della sua posizione nel canone (Francis Scott Fitzgerald, H.G. Wells). A volte insegno in una scuola di scrittura chiamata come il protagonista di un classico della letteratura americana. La rivista per cui scrivo – considerata fra le più vivaci e innovative nel panorama editoriale italiano, di certo quella più sperimentale in fatto di grafica e cultura visiva – è diretta da un giornalista che si è fatto le ossa come corrispondente da New York. I miei pezzi sono più lunghi e ondivaghi di semplici recensioni, ma di norma prendono spunto da libri appena usciti negli Stati Uniti. Questo spesso crea dissapori con gli uffici stampa degli editori italiani, che si lamentano del fatto che, all’uscita del libro qui, la mia rivista non ne scrive perché lo ha già fatto l’anno prima.

(leggi per intero su IL)