Le richieste di archiviazione per Mafia Capitale

Riguardano 116 persone, su cui la procura non ha trovato elementi sufficienti per proseguire le indagini

Il pm Luca Tescaroli, durante la seconda udienza del processo Mafia capitale all'interno dell'aula bunker di Rebibbia 17 novembre 2015 a Roma (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
Il pm Luca Tescaroli, durante la seconda udienza del processo Mafia capitale all'interno dell'aula bunker di Rebibbia 17 novembre 2015 a Roma (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione per 116 persone indagate nell’ambito di “Mafia Capitale”, non trovando elementi sufficienti per proseguire l’indagine nei loro confronti. Tra i 116 ci sono politici, come il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, imprenditori e altri professionisti che erano stati coinvolti nell’inchiesta a seguito delle dichiarazioni di alcuni degli imputati principali.

Nicola Zingaretti era stato indagato per sospetto concorso in corruzione per due episodi avvenuti prima del 2011 e nel 2013 e per turbativa d’asta a causa di una serie di dichiarazioni che aveva fatto Salvatore Buzzi, uno dei principali indagati, durante gli interrogatori. Dopo le sue accuse gli inquirenti avevano svolto delle verifiche che però non hanno portato a niente. Tra le altre persone per cui è stata chiesta l’archiviazione, i principali giornali citano: Vincenzo Piso, parlamentare attualmente iscritto al gruppo Misto che era indagato per finanziamento illecito, Daniele Leodori, presidente del Consiglio Regionale del Lazio e Alessandro Cochi, ex delegato allo sport nella giunta di Roma di Gianni Alemanno. Tra gli indagati accusati di associazione mafiosa, il reato più grave tra quelli ipotizzati, è stata chiesta l’archiviazione per Riccardo Mancini e Antonio Lucarelli collaboratori di Alemanno e gli avvocati penalisti Paolo Dell’Anno, Domenico Leto e Michelangelo Curti. Archiviata anche la posizione di Ernesto Diotallevi, in passato coinvolto in indagini sulla banda della Magliana.

Nella richiesta generale di archiviazione i pubblici ministeri hanno scritto: «Occorre precisare che le indicazioni fornite da Buzzi sono apparse sospette e ancorate a una precisa strategia difensiva, proiettata a dimostrare la propria estraneità all’associazione di tipo mafioso contestatagli e ad accreditarsi dinanzi agli inquirenti quale collaboratore dell’autorità giudiziaria».

L’inchiesta giudiziaria conosciuta come “Mondo di mezzo” o “Mafia Capitale” era cominciata nel dicembre del 2014 e aveva portato all’arresto di decine di persone per una presunta associazione mafiosa composta principalmente – ma non solo – da esponenti politici e dalla criminalità organizzata romana, che controllavano appalti e finanziamenti pubblici con metodi mafiosi. L’inchiesta fu chiamata da subito dai magistrati responsabili “Mafia capitale”, con l’evidente obiettivo di sostenere la tesi che tra le accuse potessero essere sostenute anche quelle legate alle associazioni criminali di tipo mafioso. Il reato al centro dell’inchiesta era appunto l’associazione di stampo mafioso, regolata dall’articolo 416 bis, ed era la prima volta che questa imputazione veniva contestata a persone non appartenenti a organizzazioni con diretto riferimento a mafia, camorra e ‘ndran­gheta. I nomi principali emersi durante la prima fase dell’inchiesta erano due: Massimo Carminati, ex terrorista di estrema destra in passato vicino alla banda della Magliana, e Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa di ex carcerati “29 Giugno”. Entrambi secondo la procura erano a capo di un’organizzazione di tipo mafioso.

Sui giornali di oggi la notizia dell’archiviazione dei 116 indagati è raccontata con toni contraddittori rispetto a quelli usati dagli stessi giornali all’inizio dell’inchiesta: quando cioè in molti avevano aderito immediatamente alla tesi dell’organizzazione mafiosa, o avevano mostrato poca cautela e molta enfasi. La tendenza principale nei titoli e negli articoli di oggi sembra essere quella di un ridimensionamento della questione e della ricerca di un nuovo equilibrio. Mattia Feltri, su La Stampa, ha una posizione piuttosto estrema. Dice che “Mafia Capitale” è stata una “bolla di sapone” e che a quasi due anni dal suo inizio «restano un pugno di imputati con infiltrazioni sempre più ipotetiche, centinaia di articoli e qualche libro di successo». Facendo poi riferimento alle vicende più recenti, che coinvolgono l’attuale assessore all’Ambiente nella giunta di Virginia Raggi, Paola Muraro, scrive: «Restano, soprattutto, leader del Pd e del Movimento cinque stelle che continuano a rinfacciarsi rapporti con mafia capitale, cioè rapporti col nulla, che è la cifra dei nostri tempi».

Carlo Bonini su Repubblica scrive che quel numero, da solo, (quello dei 116 archiviati) «è sufficiente a rianimare, per un giorno, il fantasma “dell’abbiamo scherzato”. Restituisce carburante all’argomento principe dei cinquanta imputati a processo. Che questa storia, in fondo, sia stata e resti una banale faccenda di ladri di polli, gonfiata ad uso mediatico, perché con quella parola – mafia – poco o nulla ha a che fare». Poi Bonini aggiunge un “ma” e cioè che la storia dell’archiviazione va presa per quello che è e che «la lettura di quel solo numero non spiega né dimostra nulla. Piuttosto, induce a uno strabismo che non coglie la sostanza della decisione della Procura. E non tanto e non solo perché in quei 116 archiviati c’è chi, come lo stesso Alemanno, è nel frattempo a processo per corruzione e finanziamento illecito dei partiti per fatti emersi nell’indagine “Mafia Capitale” (non esattamente due reati bagatellari). Ma perché se è vero che 116 sono state le richieste di archiviazione, sono almeno 70 gli indagati in libertà per i quali è stato chiesto nel frattempo il processo. Oltre ai 50 già a giudizio nell’aula bunker di Rebibbia».