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  • Lunedì 3 ottobre 2016

La “rotta balcanica” non è davvero chiusa

Il tragitto più percorso la scorsa estate dai migranti partiti dalla Turchia è formalmente chiuso da marzo, ma ci sono ancora modi – legali e non – per percorrerlo

(CSABA SEGESVARI/AFP/Getty Images)
(CSABA SEGESVARI/AFP/Getty Images)

Diverse indagini di giornali e report di ONG che si occupano di migranti fanno pensare che la cosiddetta “rotta balcanica”, cioè il tragitto dal Medio Oriente all’Europa centrale che hanno percorso centinaia di migliaia di migranti nell’estate del 2015, non sia del tutto chiusa.

Formalmente la rotta non è più percorribile da marzo 2016, quando i paesi europei interessati dal suo tragitto – la maggior parte dei quali si trova nella penisola balcanica – hanno chiuso le proprie frontiere per i migranti che desideravano passare oltre per proseguire in Europa. L’evento che ha reso possibile la chiusura della rotta è stato l’accordo fra Unione Europea e Turchia, con il quale la Turchia ha promesso di interrompere il passaggio dei barconi di migranti dalle proprie coste alle isole greche, la base di partenza della rotta balcanica. Qualcosa però non ha funzionato. Da marzo in poi il flusso dalla Turchia alla Grecia si è effettivamente ridotto di molto, anche se non è scomparso; da settimane circolano notizie di persone che provano di nuovo a percorrere la rotta. Qualche giorno fa lo stesso presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha riconosciuto implicitamente il problema, spiegando che «dobbiamo dimostrare che sia politicamente sia nella pratica la rotta balcanica per i migranti irregolari è stata chiusa per sempre».

I metodi illegali
Secondo una stima del Guardian sulla base di dati forniti dall’UNHCR, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati, 24.790 migranti sono passati per la Serbia – il paese centrale della rotta – da marzo a fine agosto. I metodi per aggirare la chiusura delle frontiere sono vari, spiega il Guardian: «molti entrano in Europa attraverso la Bulgaria, invece di prendere un barcone dalla Turchia alla Grecia, dove tutti i nuovi arrivati vengono fatti prigionieri. I migranti bloccati in Grecia [che secondo alcune stime sono fra i 50mila e i 60mila] a volte pagano i trafficanti per portarli sulla terraferma, e poi cercano di raggiungere la Macedonia a piedi». Le nuove rotte non sono state registrate solo in Serbia: ad agosto più di duemila migranti sono riusciti a passare per la Croazia, un altro dei paesi più interessati dalla rotta balcanica, e che teoricamente ha da tempo chiuso le frontiere.

Poi ci sono quelli che inventano soluzioni alternative: un’inchiesta di BBC ha intervistato un gruppo di migranti che sono rimasti attaccati sotto le carrozze di un treno per 19 ore, per raggiungere la Serbia dalla Grecia.

I metodi più legali
Da qualche mese esiste anche una specie di piccola rotta organizzata. Secondo un report di Human Rights Watch pubblicato a luglio, il governo serbo e ungherese – che ha appena “perso” un referendum sulle quote per i richiedenti asilo stabilite dall’Unione Europea – non hanno mai interrotto completamente il flusso: inizialmente hanno stabilito un numero massimo di 100 ingressi al giorno in due zone di passaggio – quelle di Horgoš e Kelebija, vicino al campo profughi serbo di Subotica – poi lo hanno progressivamente ridotto a 15. Accanto alle due zone si sono creati due campi profughi ufficiosi dove le persone attendono il proprio turno per entrare in Ungheria, stabilito attraverso una specie di sistema “a chiamata”. Una volta passati in Ungheria, vengono trattenuti per giorni dalle autorità ungheresi «in baracche di fortuna, e senza la possibilità di comunicare con l’esterno» e poi vengono spesso rimandati indietro. Un report di Amnesty International uscito la settimana scorsa conferma molte delle accuse di Human Rights Watch.

Pio d’Emilia, giornalista di Sky che si è spesso occupato di migranti, ha visitato di recente il campo ufficioso di Horgoš, mostrando le condizioni igieniche precarie in cui vengono lasciti i migranti che aspettano il proprio turno per passare in Ungheria, e il rito quotidiano di apertura del cancello del confine, da cui passano solo pochissime persone (apparentemente, ciascuno sa qual è il suo giorno per passare). D’Emilia sostiene che una volta entrati in Ungheria, vengono trattenuti per qualche giorno dentro dei container e che successivamente vengono caricati su un pullman della polizia ungherese e portati vicino al confine austriaco.

Non è chiaro se d’Emilia sostenga che i migranti che entrano in Ungheria riescono ad arrivare in Austria perché ha informazioni diverse da quelle di Human Rights Watch e Amnesty, o se nel frattempo sia cambiato qualcosa nelle politiche ungheresi.

Sia Human Rights Watch sia d’Emilia, comunque, sostengono che i migranti vengono invitati a chiedere asilo politico in Ungheria. Non è chiaro perché succeda: secondo le regole attuali del trattato di Dublino, il primo paese dell’Unione Europea in cui un richiedente asilo mette piede, sarà quello che si occuperà della sua domanda di asilo. L’Ungheria è nota per accettare un numero bassissimo di richieste di asilo, e Human Rights Watch ha scritto appunto di diversi casi in cui la richiesta di asilo è stata rifiutata nel giro di poche ore, cosa che ha costretto i migranti in questione a tornare in Serbia (nei paesi normali, ci vogliono mesi per ricostruire la legittimità di un singolo caso).

Secondo diverse ONG che si occupano di migranti, la chiusura delle frontiere ha ridotto il flusso ma peggiorato le condizioni delle persone che tuttora percorrono la “rotta balcanica”, spingendole a rivolgersi maggiormente verso i trafficanti. Da mesi circolano inoltre notizie di reazioni violente da parte della polizia dei vari stati balcanici coinvolti dalla rotta: la polizia ungherese è nota da tempo per i suoi metodi spicci e violenti nei confronti dei migranti, mentre il Guardian ha raccolto fra le tante la testimonianza di un ragazzo siriano scoperto dalla polizia macedone mentre passava il confine dalla Grecia: «Ho detto loro che avevo un problema allo stomaco, e chiesto di non colpirmi lì. Dopo mi hanno colpito solamente in quel punto».