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  • Lunedì 3 ottobre 2016

Perché non si parla dello Yemen?

Se l'è chiesto il New York Times, confrontando la guerra yemenita con quella siriana, e facendo delle considerazioni che valgono anche qui da noi

Un uomo cerca dei sopravvissuti sotto le macerie di una casa bombardata dagli aerei sauditi a Sana'a, in Yemen (AP Photo/Hani Mohammed, File)
Un uomo cerca dei sopravvissuti sotto le macerie di una casa bombardata dagli aerei sauditi a Sana'a, in Yemen (AP Photo/Hani Mohammed, File)

Un anno e mezzo fa cominciò una delle crisi più gravi e fuori controllo del Medio Oriente, di cui però si parla ancora pochissimo: la guerra in Yemen. L’unico momento di grande attenzione internazionale, durata pochi giorni, avvenne alla fine di marzo 2015, quando l’Arabia Saudita cominciò a bombardare i ribelli Houthi, che da tempo combattevano una guerra civile contro il governo centrale yemenita. Da allora i bombardamenti e gli scontri non si sono praticamente mai fermati e la situazione è peggiorata con l’espansione di al Qaida. Per capirci: la divisione yemenita di al Qaida, AQAP, è quella che rivendicò l’attentato a Parigi contro la redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo. Migliaia di persone sono state uccise e moltissime altre sono state costrette a lasciare le loro case. Della guerra però si continua a parlare poco: il New York Times ha provato a spiegare il perché, facendo un confronto con la guerra in Siria che invece è ampiamente raccontata; sono riflessioni interessanti perché in buona parte possono essere estese anche a quello che succede qui da noi.

Breve premessa sulla guerra in Yemen. I principali schieramenti che combattono sono due; tre se si considera anche al Qaida. Il primo fa riferimento al presidente Abdel Rabbi Monsour Hadi, eletto nel 2012 dopo la fine del regime di Ali Abdullah Saleh, che aveva governato il paese per oltre trent’anni. Hadi è sostenuto dall’Arabia Saudita, dai paesi del Golfo, dall’Egitto e dagli Stati Uniti. Il secondo schieramento è formato dagli Houthi (un gruppo legato agli sciiti, prima concentrato nel nord del paese e alleato con l’Iran), dalle forze fedeli all’ex presidente Saleh e dall’Iran. La guerra in Yemen è molto complicata: spesso viene interpretata solo come una cosiddetta “guerra per procura” tra Iran e Arabia Saudita, due nemici nella regione del Golfo Persico, alla quale appartiene anche lo Yemen; ma è anche uno scontro violento basato sulla rivalità tra gruppi yemeniti che fanno riferimento a diverse personalità politiche nazionali (Saleh e Hadi) oltre che a differenze religiose (sunniti i sostenitori di Hadi, sciiti quelli degli Houthi). Oggi lo Yemen è controllato per un pezzo dai ribelli Houthi (l’ovest), un pezzo dalle forze che fanno riferimento ad Hadi (centro ed est, al confine con l’Oman) e un pezzo da al Qaida. Nell’ultimo anno e mezzo sono state uccise 10mila persone, sia civili che combattenti.

La prima riflessione che fa il New York Times riguarda in generale l’attenzione sulle notizie di esteri, tra cui le guerre che si combattono in altri paesi: «Gli stranieri spesso esprimono preoccupazione sul fatto che i canali di news statunitensi, per esempio, diano meno spazio alle notizie del resto del mondo rispetto a quello che il resto del mondo riserva alle notizie che arrivano dagli Stati Uniti». È un’osservazione che si può applicare in parte anche all’Italia, dove tradizionalmente l’attenzione dell’opinione pubblica è più concentrata sulle notizie di interni e di politica e dove gli esteri trovano molto poco spazio. Se la si guarda così, l’attenzione per la guerra in Siria è un’eccezione, non la regola: negli ultimi anni ci sono state guerre molto violente e ancora irrisolte, come quella della Repubblica Democratica del Congo, di cui però non si è occupato praticamente nessuno.

La Siria è un’eccezione per diverse ragioni. La prima, quella con forse più impatto, è la presenza dello Stato Islamico (o ISIS). Il New York Times ha scritto che per appassionarsi a una guerra l’opinione pubblica deve avere una specie di quadro emozionale all’interno del quale identificare «i buoni e i cattivi». Fin dall’inizio lo Stato Islamico ha messo d’accordo tutti: nessuno stato lo sosteneva e nemmeno in Italia – dove spesso le forze politiche si esprimono sulla politica estera con molta frettolosità – ci sono state prese di posizioni favorevoli all’ISIS. Lo Stato Islamico è percepito da noi come un pericolo: sia perché in passato ha minacciato di compiere attentati a Roma, sia per l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi siriani in Europa (in realtà questa è una percezione in parte errata: la maggior parte dei siriani che arrivano in Europa provengono da zone bombardate dal regime del presidente siriano Bashar al Assad).

In Yemen lo Stato Islamico praticamente non c’è: c’è al Qaida, che però nella percezione occidentale in questo momento è meno pericolosa rispetto allo Stato Islamico. Non ci sono grandi flussi di migranti che arrivano dallo Yemen – ma ci sono moltissimi profughi interni al paese – e l’accesso dei giornalisti in territorio yemenita è quasi del tutto bloccato. Inoltre è difficile per l’Occidente stabilire chi siano i buoni e chi siano i cattivi. Gli Houthi sono appoggiati dall’Iran, che qui da noi è spesso visto come uno “stato canaglia”, mentre le forze di Hadi – l’ultimo presidente eletto – sono sostenute dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita, la quale si è resa responsabile di crimini molto gravi. Allo stesso tempo i rapporti tra americani e sauditi stanno attraversando un momento di profonda crisi, come ha dimostrato il voto del Congresso statunitense che dà la possibilità alle famiglie dei morti negli attentati dell’11 settembre 2001 di procedere legalmente contro l’Arabia Saudita, paese dal quale provenivano 15 dei 19 terroristi. Il risultato è che attorno alla guerra in Yemen non si è sviluppata quella narrativa di giusto-sbagliato che spesso si rivela necessaria per mantenere alta l’attenzione su un conflitto e semplificare quello che succede agli occhi dell’opinione pubblica.

E poi ci sono altre due cose. Primo: la guerra contro lo Stato Islamico è considerata in parte il risultato all’invasione americana in Iraq del 2003, con la quale fu destituito l’ex presidente iracheno Saddam Hussein. L’Iraq non solo confina con la Siria, ma è anche l’altro paese dove c’è una massiccia presenza dello Stato Islamico. L’invasione del 2003 fu molto discussa in Italia: il centrosinistra si oppose all’intervento, con alcune posizioni meno convinte e più critiche, mentre il centrodestra lo appoggiò, con la Lega Nord più scettica. E poi c’è l’altra parte della guerra in Siria, quella tra Assad e i ribelli, che iniziò nel 2011 sulla scia delle Primavere Arabe, altro processo che in Italia seguimmo con un’attenzione e una curiosità inusuali. In un certo senso questi dibattiti stanno rendendo la guerra in Siria molto più familiare e più facile da interpretare e da giudicare, almeno apparentemente. Secondo: nella guerra in Siria sono intervenuti diversi stati stranieri – Stati Uniti, Russia, Turchia e diversi paesi europei ed arabi – che hanno amplificato la narrazione della guerra e le sue possibili conseguenze: chi si prenderà cosa, una volta che sarà finito tutto? Ed è anche su questo punto che si sono polarizzate molte delle posizioni attorno al conflitto: da una parte gli anti-americani e dall’altra parte quelli che criticano soprattutto i russi.

Dello Yemen invece non si sa quasi niente: la narrazione usata per raccontarlo è quella dello scontro tra Iran e Arabia Saudita, un argomento un po’ superficiale e che comunque appassiona molto meno dello scontro tra Stati Uniti e Russia. È più complicato capirlo e prendere una parte. Ed è un problema, conclude il New York Times, perché la maggior parte dei conflitti del mondo sono come quello in Yemen, non come quello in Siria.