Dove sta andando Uber?

Negli ultimi tempi ha perso parecchi soldi e non si capisce in cosa investa né come intenda ottenere profitti, spiega un giornalista di Bloomberg

di Justin Fox – Bloomberg

(Justin Sullivan/Getty Images)
(Justin Sullivan/Getty Images)

La settimana scorsa il giornalista di Bloomberg Eric Newcomer ha raccontato di come Uber continui a perdere un sacco di soldi. Le perdite della società, però, potrebbero essere molto più alte di quanto rivelato da Newcomer, che nella sua newsletter settimanale ha scritto:

Sappiamo che nella prima metà del 2016 Uber ha perso almeno 1,2 miliardi di dollari, ma la cifra è senza dubbio ancora superiore. Ho raccontato che nel primo trimestre dell’anno Uber ha perso circa 520 milioni di dollari, ma nel secondo le perdite hanno superato di gran lunga i 750 milioni. Ho la sensazione che in alcuni dei commenti la parte del “superato di gran lunga” si sia un po’ persa. La cifra che sappiamo è il livello minimo. Le perdite di Uber nel secondo trimestre sono state così alte che non sono riuscito a ottenere il numero esatto dalle mie fonti.

In una start-up c’è un’altra parola che si usa per descrivere le perdite: sono investimenti. Per dirla con le parole di Eric Paley, che lavora per la società di venture capital Founder Collective ed è stato uno dei primi a investire in Uber:

Lo sanno tutti: Uber ha raccolto finanziamenti per 15 miliardi di dollari. Eppure la stampa è sconvolta dal fatto che Uber investa miliardi. A cosa sarebbero serviti quei soldi? Per comprare dei gattini?

Giusta osservazione, che però fa sorgere una domanda: se non sono gattini, in cosa esattamente Uber sta investendo quei miliardi? La risposta facile è che – come ha scritto Newcomer nel suo articolo – «i finanziamenti agli autisti di Uber sono responsabili della maggior parte delle perdite della società a livello globale». Per essere davvero un investimento, questi finanziamenti dovrebbero creare un vantaggio competitivo di qualche tipo per la società. Quale sarebbe esattamente questo vantaggio? I professori di economia, che tendono a essere piuttosto interessati alla questione dei vantaggi competitivi, se lo chiedono da un po’ di tempo. Quando quest’estate ho scritto un paio di articoli sul posizionamento competitivo di Uber, alcuni di questi professori mi hanno scritto. Questo è quello che dice Melissa Schilling, professoressa di gestione e organizzazioni della Stern School of Business alla New York University:

Per una società tecnologica, ci sono due ragioni principali per perdere dei soldi nella sua fase iniziale con l’obiettivo di guadagnarne in futuro, e nessuna delle due si applica al caso di Uber.

1. Investimenti iniziali in costi fissi, che frutteranno man mano che la società si ingrandisce. Le aziende tecnologiche spesso devono fare grossi investimenti in ricerca e sviluppo o in strutture per la produzione che porteranno profitti solo quando le vendite saranno consistenti (come nei casi del settore delle biotecnologie o di Tesla). Questa è un’argomentazione classica dell’economia di scala. Ma non si applica al modello di Uber, che ha dei costi fissi bassi. La maggior parte delle sue perdite si deve al costo degli autisti, che è variabile. Gli autisti non costeranno meno quando Uber sarà più grande.

2. Finanziare la creazione di una ampia base installata – cioè la quantità di unità di un determinato prodotto – per “conquistare” il mercato. Le società nei settori che hanno esternalità di rete – un concetto usato per descrivere la situazione in cui per una persona l’utilità di un prodotto è legata al numero di persone che lo usano, come per esempio i videogiochi, i sistemi operativi o i social network – possono finanziare la creazione di una base installata (console a basso costo o social network gratuiti) con la speranze di ottenere una posizione dominante nel mercato, e ottenere poi guadagni da altre fonti legate alla base installata (giochi o pubblicità). Uber sembra credere in questo modello, ma ci sono due problemi.

Il primo è che sarà difficile che i clienti di Uber sviluppino un rapporto di dipendenza verso il servizio (il cosiddetto lock-in), perché i costi per passare a un’altra società sono bassi sia per gli autisti che per i clienti. Alcuni autisti lavorano già per diverse società di trasporti contemporaneamente! Secondo, qual è la fonte di ricavi alternativa? Per continuare a finanziare la sua base installata, i guadagni di Uber devono arrivare da qualcos’altro che sia collegato alla sua base installata. Al momento non si capisce cosa possa essere.

Sul breve periodo, la risposta di Uber al problema del lock-in sembra essere appunto offrire agli autisti degli incentivi economici per far sì che non passino a servizi rivali come Lyft o Gett. Ma è una strategia costosa e potrebbe non funzionare. Presumibilmente le auto che si guidano da sole di Uber non passerebbero mai alla concorrenza (perlomeno fino a quando non diventeranno senzienti), ma 1) ci vorrà probabilmente molto tempo perché siano pronte, nonostante il test di questo mese a Pittsburgh, e 2) saranno necessari molti altri miliardi in investimenti.

Può anche essere, però, che il piano di Uber per fare guadagni sia più vecchio stile. Questo è quello che mi ha scritto Sanford Jacoby, economista e storico dell’economia della Anderson School of Management alla University of California.

La storia che di solito si racconta su Uber è che ha successo grazie all’economia di rete, che crea un’interazione tra il numero dei suoi clienti e quello degli autisti. Agli economisti questa storia piace perché è una storia di efficienza: domanda e offerta combaciano. Efficienza significa tariffe più basse. L’utilizzo della capacità produttiva delle auto di Uber è più alto, e questo fa sì che dove questo accade le tariffe di Uber siano minori rispetto a quelle dei taxi.

C’è poi una specie di storia alternativa, secondo cui Uber toglie clienti ai taxi abbassando il prezzo (anche se non dovrebbe essere così: si parla sempre della questione della maggiorazione delle tariffe di Uber). Grazie alla grande quantità di denaro a sua disposizione, Uber lo può fare in tutto il mondo. Una volta danneggiata la concorrenza, i clienti hanno sempre meno alternative e Uber diventa sempre più popolare. Questa strategia alla fine crea una situazione di semi-monopolio, e a quel punto le tariffe possono aumentare.

Almeno quest’ultima versione offre a Uber una via chiara per ottenere profitti sostenibili, ed è in linea con la recente decisione della società di lasciare la Cina, dove pare non avesse possibilità di diventare il servizio dominante. Ma pone anche un sacco di domande – sottolinea Jacoby – sulle norme antitrust che dovrebbero vietare strategie simili per ribassare i prezzi, mettere fuori i concorrenti, e rialzarli dopo aver raggiunto il semi-monopolio. Non una bella storia, insomma. Fin qui, la storia più bella su Uber e i suoi rivali è che hanno ampliato moltissimo il mercato delle persone che si spostano prendendo passaggi sulle auto di altri.

Nel 2014 il professore di finanza della Stern School of Business alla New York University, Aswath Damodaran, discusse molto online con un investitore di venture capital e Bill Gurley, membro del consiglio di amministrazione di Uber, sul fatto che la società dovesse semplicemente sostituire tutti i taxi e i servizi d’auto esistenti (la tesi iniziale di Damodaran) o portare nel mercato nuovi clienti («Quando si migliora sensibilmente un’offerta, si creano nuovi servizi, funzioni, esperienze, prezzi e addirittura casi d’uso, e durante il processo si può ampliare sensibilmente anche il mercato», scrisse Gurley). Di recente nel suo blog, Damodaran ha ammesso in sostanza la sconfitta su questo punto.

I servizi di condivisione di passaggi in auto sono cresciuti più velocemente, sono arrivati in più posti e sono usati da più utenti di quanto la maggior parte delle persone pensavano sarebbero riusciti a fare qualche anno fa. E anche la velocità con cui crescono sta aumentando.

Il sostenitore di Uber ha finito con l’aver ragione, mentre il professore di economia scettico aveva torto (una cosa da tenere a mente quando oggi leggete le analisi perplesse di professori e giornalisti). Tuttavia, non sappiamo ancora quanto questa crescita sia il risultato dei reali vantaggi tecnologici e di network di Uber, il cui servizio viene attivato dagli smartphone, e quanto invece sia dovuto ai grandi finanziamenti distribuiti da Uber e dai suoi concorrenti (e dai vantaggi di cui hanno goduto venendo regolamentati in modo più morbido rispetto ai taxi). Come ha sottolineato Damodaran nello stesso post sul suo blog, non è ancora chiaro quale sia il modello di business di Uber. Finché le cose rimarranno così, lo scetticismo dei professori di economia non farà che aumentare.

© 2016 – Bloomberg

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