Perché molti film iniziano con “Ogni riferimento a persone esistenti…”

La storia di quella frase che sappiamo quasi a memoria comincia con Rasputin, il monaco russo assassinato nel 1916

Un dettaglio del cartellone del film "Rasputin e l'imperatrice" (1934)
Un dettaglio del cartellone del film "Rasputin e l'imperatrice" (1934)

La frase che compare all’inizio di molti film per negare che la storia raccontata sia una ricostruzione fedele di una storia vera – quella che inizia con “Ogni riferimento a persone esistenti…”, e che tutti sappiamo quasi a memoria – esiste per via di un film americano del 1934, Rasputin e l’imperatrice, che non la conteneva. Il film, diretto da Richard Boleslawski e interpretato dai fratelli Lionel, Ethel e John Barrymore (l’ultimo è il nonno dell’attrice Drew Barrymore), raccontava la storia del monaco russo Rasputin e del suo omicidio nel 1916. Nel film l’assassinio di Rasputin è compiuto da un personaggio chiamato “principe Paul Chegodieff”: il nome è inventato, ma la storia è in parte fedele agli eventi che si svolsero nella realtà. Irina Jusupov, moglie di Felix Jusupov, l’uomo che uccise Rasputin, fece causa per diffamazione alla casa di produzione Metro-Goldwin-Mayer, che aveva realizzato il film: vinse e ottenne un grosso risarcimento. Da allora la frase “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”, o una sua versione, si trova all’inizio o alla fine di ogni film che potrebbe essere l’oggetto di una causa per somiglianza con una storia vera, per evitare problemi legali.

La causa di Irina Jusupov alla MGM

Il nobile Felix Jusupov uccise Rasputin, perché come gran parte dell’aristocrazia russa era preoccupato dell’influenza del monaco sulla famiglia imperiale, in particolare sulla zarina Alessandra. Anche se in Rasputin e l’imperatrice è chiamato Chegodieff e il movente dell’omicidio è parzialmente diverso rispetto a quello reale di Jusupov, non ci sono dubbi sull’identità di chi ispirò il personaggio. Anche perché all’inizio del film c’è la frase: «Questo film riguarda la distruzione di un impero… Alcuni dei protagonisti sono ancora vivi – gli altri sono morti in modo violento». Nel 1934 Jusupov e sua moglie erano le uniche persone ancora in vita tra quelle rappresentate dai protagonisti del film (la famiglia imperiale, che aveva esiliato Jusupov e la moglie per l’omicidio di Rasputin, fu uccisa dai bolscevichi nel 1918), per questo non potevano esserci dubbi sull’identità di Chegodieff e conseguentemente di sua moglie, che nel film è chiamata Natasha. Proprio perché non c’erano dubbi, Irina Jusupov vinse la causa per diffamazione contro la MGM. La MGM dovette pagare a Irina Jusupov una somma di denaro di cui non si conosce l’esatto importo: forse 25mila dollari, forse 125mila.

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La ragione per cui gli Jusupov non erano contenti di come erano stati rappresentati nel film non aveva a che fare con l’omicidio di Rasputin, che lo stesso Felix Jusupov aveva ammesso di aver compiuto in un libro autobiografico (pubblicato in Italia nel 1955 da Rizzoli con il titolo Dalla corte all’esilio). Il fatto è che in Rasputin e l’imperatrice il personaggio di Natasha, rappresentata come una seguace di Rasputin, viene stuprata dal monaco e dopo questo fatto pensa, d’accordo con il marito, di non poter più essere sua moglie, essendo stata disonorata. In realtà Irina Jusupov non incontrò mai Rasputin: si diceva invece – ma non c’era certezza – che ad essere stata violentata da Rasputin fu la zarina Alessandra. Nel film la storia fu cambiata per evitare di raffigurare un atto sessuale tra fratelli, dato che Rasputin era interpretato da Lionel Barrymore e la zarina da Ethel Barrymore.

Dopo aver perso la causa con Irina Jusupov, la MGM ritirò il film, cancellò la scena in cui la principessa Natasha veniva stuprata e fece sparire dalla circolazione le copie del film per anni. Un consulente legale disse alla casa di produzione che avrebbe fatto meglio a mettere una nota all’inizio del film che negava il legame tra i fatti narrati e la realtà, cioè qualcosa di opposto rispetto a quanto fatto all’inizio di Rasputin e l’imperatrice. Da allora la formula che in inglese è nota come “All persons fictitious” è usata abitualmente nel cinema.

yusupovFelix Jusupov e sua moglie Irina nel 1914 (Wikimedia Commons)

La formula non è sempre stata efficace nell’evitare cause alle case di produzione cinematografica, che usano la frase anche nei film ispirati da libri che raccontano storie vere o che sono molto biografici. Un esempio, raccontato dalla storica Natalie Zemon Davis in un articolo pubblicato sulla Yale Review nel 1986, è quello del film di John Ford del 1945 I sacrificati: il film racconta una storia della Seconda guerra mondiale ambientata nelle Filippine. A fare causa alla MGM fu il capitano Robert Bolling Kelly, che nel film si chiama Rusty Ryan ed è interpretato da John Wayne. Un altro caso fu quello del film per la televisione del 1979 The Bell Jar, tratto dall’omonimo romanzo semi-autobiografico di Sylvia Plath (in italiano La campana di vetro): nel film e nel libro uno dei personaggi, una donna di nome Joan, invita la protagonista a suicidarsi con lei, e nel film si sottintende che la donna sia lesbica. Per questo la donna a cui il personaggio era ispirato – la psichiatra di Boston Jane V. Anderson – fece causa alla casa di produzione AVCO Embassy Pictures Corporation e con un accordo ottenne un risarcimento.

Famose reinterpretazioni di “Ogni riferimento a persone esistenti…”

Per via della sua riconoscibilità nell’immaginario collettivo la frase “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale” è diventata negli anni oggetto di numerose reinterpretazioni e parodie, non solo nei film, ma anche nei libri. Nel film del 1981 Un lupo mannaro americano a Londra e anche nel video della canzone di Michael Jackson Thriller la formula comprende non solo ogni persona viva o morta, ma anche “non-morta”, come i fantasmi e gli zombie rappresentati nel film e nel video. All’inizio di L’opera struggente di un formidabile genio, libro autobiografico dello scrittore americano Dave Eggers, c’è una lunga nota in cui tra le altre cose si legge:

«Qualunque somiglianza con persone morte o viventi dovrebbe essere piuttosto evidente a coloro che dette persone hanno conosciuto, specie dove l’autore è stato così gentile da fornire i loro veri nomi e, in alcuni casi, i loro numeri di telefono. Tutti gli avvenimenti descritti nel libro sono realmente avvenuti, anche se di tanto in tanto l’autore si è preso alcune piccole libertà relativamente alla cronologia, essendo questo un suo diritto in quanto americano».

Un esempio letterario italiano è quello dell’inizio del romanzo Troppi paradisi di Walter Siti, in cui vengono citati molti personaggi famosi tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. All’inizio del romanzo si legge:

«Anche in questo romanzo, il personaggio Walter Siti è da considerarsi un personaggio fittizio: la sua è una autobiografia di fatti non accaduti, un fac-simile di vita. Gli avvenimenti veri sono immersi in un flusso che li falsifica; la realtà è un progetto, e il realismo una tecnica di potere. Come nell’universo mediatico, anche qui più un fatto sembra vero, più si può stare sicuri che non è accaduto in quel modo.
Compaiono nel libro molti nomi e cognomi di persone note (i cosiddetti vip); tali nomi e cognomi hanno una pura funzione segnaletica, e le biografie delle persone che essi designano sono volutamente e palesemente falsificate. All’opposto di quanto accade nei romanzi-a-chiave, dove i fatti veri sono attribuiti a personaggi ‘in maschera’, qui a persone reali, indicate con nome e cognome, si attribuiscono fatti esplicitamente fittizi. Così funziona la post-realtà, nel regno dell’immagine, dove il prezzo da pagare per la notorietà è di essere trasformati in personaggi quasi-veri, condensatori di fantasmi».