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  • Lunedì 8 agosto 2016

Storie dalla squadra olimpica dei rifugiati

Quest'anno per la prima volta partecipa ai Giochi una squadra che rappresenta tutti i rifugiati del mondo, i cui atleti ne hanno passate tante

La squadra dei rifugiati durante la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Rio de Janeiro (FRANCK FIFE/AFP/Getty Images)
La squadra dei rifugiati durante la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Rio de Janeiro (FRANCK FIFE/AFP/Getty Images)

Alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, per la prima volta nella storia dei Giochi, sta partecipando una squadra di rifugiati: è formata da 10 atleti scelti dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale) di nazionalità siriana, sud-sudanese, etiope e congolese, e rappresenta i circa 60 milioni di rifugiati nel mondo, il numero più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale. Gli atleti – nuotatori, mezzofondisti, maratoneti e judoka – hanno sfilato alla cerimonia di apertura che si è tenuta venerdì sera allo stadio Maracanã di Rio de Janeiro: sono stati presentati in tre lingue e hanno attraversato lo stadio dentro la bandiera olimpica, bianca con i cinque cerchi, e accolti da un lungo e intenso applauso dal pubblico presente.

Già diverse volte in passato il CIO aveva permesso la partecipazione alle Olimpiadi di squadre non propriamente tradizionali, sulla base di uno dei principi fondamentali dei Giochi: «L’obiettivo delle Olimpiadi è mettere lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità, per promuovere una società pacifica in accordo con la preservazione della dignità umana». Per esempio aveva permesso a molti atleti di rappresentare i loro paesi anche se non ufficialmente riconosciuti dalle Nazioni Unite o dai loro vicini: è il caso del Kosovo, stato che si è dichiarato indipendente nel 2008 ma che ufficialmente è ancora parte della Serbia. Nella notte tra domenica e lunedì il Kosovo ha vinto la prima medaglia olimpica della sua storia: un oro con la judoka Majilinda Kelmendi. Nonostante tutti i precedenti di questo tipo – alcuni oggetto di grandi controversie, come nel caso della squadra palestinese – la partecipazione dei rifugiati è una novità assoluta. I dieci atleti che ne fanno parte non rappresentano una nazione, ma milioni di persone provenienti da paesi diversi.

Una delle storie più belle sulla squadra dei rifugiati riguarda la nuotatrice 18enne siriana Yusra Mardini. Mardini ha lasciato il suo paese a causa della guerra. Come migliaia di altri suoi connazionali, si è spostata da Damasco a Beirut, in Libano, poi a Istanbul e Smirne, in Turchia. Da qui è riuscita ad arrivare in Grecia a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Durante la traversata, ha raccontato Mardini, il motore della barca si è rotto. Lei, la sorella e un’altra ragazza si sono tuffate in mare, spingendo l’imbarcazione per tre ore e mezza fino alle coste dell’isola greca di Lesbo: «Pensavo che sarebbe stata una vera vergogna se fossimo affogate, perché eravamo nuotatrici. Ho odiato il mare dopo quella volta». Mardini arrivò in Germania risalendo la rotta balcanica in treno e a piedi. Ha fatto la sua prima gara sabato: ha gareggiato nei 100 metri farfalla, vincendo la sua batteria con un tempo di 1 minuto e 9,21 secondi, un secondo in meno della seconda classificata. Non è riuscita a qualificarsi per la finale (il suo è stato il 41esimo tempo in assoluto) ma è stata applauditissima dal pubblico e uscita dalla vasca ha detto: «È stato tutto meraviglioso. La sola cosa che volevo era partecipare alle Olimpiadi. Mi sentivo bene in acqua. Gareggiare con questi grandi campioni è eccitante. Sono tornata ad allenarmi da due anni e solo ora sto raggiungendo di nuovo i miei livelli di prima». Mardini parteciperà a un’altra gara: i 100 metri stile libero, mercoledì alle 18.

Nella squadra dei rifugiati ci sono anche cinque mezzofondisti sud-sudanesi, tre uomini e due donne. James Nyang Chiengjiek, per esempio, ha 28 anni e proviene da Bentiu, una città del Sud Sudan vicino al confine con il Sudan. Suo padre era un soldato e morì nel 1999 durante la guerra che allora si stava combattendo tra il governo sudanese e l’Esercito popolare di liberazione del Sudan, quello che sarebbe diventato poi l’esercito del Sud Sudan. Chiengjiek scappò dal suo paese per evitare di essere sequestrato dai ribelli che lo volevano trasformare in un bambino-soldato. Andò in Kenya nel 2002 e cominciò a correre nel campo profughi di Kakuma, sostenuto dalle Nazioni Unite. All’inizio non aveva nemmeno le scarpe: ogni tanto le prendeva in prestito dagli altri, ma non sempre: «Tutti noi abbiamo subìto molti infortuni per via delle scarpe. Per questo le condividevamo. Se avevi due paia di scarpe, aiutavi chi non ne aveva nemmeno uno». Chiengjiek correrà la batteria dei 400 metri sabato 13.

Popole Misenga è invece un judoka della Repubblica Democratica del Congo. Quando aveva nove anni fu costretto a separarsi dalla sua famiglia e fuggire dai combattimenti in corso a Kisingani: fu ritrovato otto giorni dopo, nascosto in una foresta, e fu portato nella capitale Kinshasa in un centro per bambini sfollati. Lì iniziò a fare judo ma le cose continuarono ad andare male. Ogni volta che perdeva una gara il suo allenatore lo rinchiudeva in una gabbia per giorni, dandogli solo caffè e pane. A causa della guerra e delle condizioni in cui era costretto a vivere, Misenga chiese lo status di rifugiato e lo ottenne. Si trasferì in Brasile e da allora si allena nella scuola di judo fondata da Flavio Canto, un ex judoka vincitore di una medaglia di bronzo olimpica.

MisengaPopole Misenga a Rio de Janeiro (YASUYOSHI CHIBA/AFP/Getty Images)

Una storia simile è quella di Yolande Mabika, judoka 28enne, anche lei della Repubblica Democratica del Congo. Mabika dice di essere stata separata dai suoi genitori quando era molto giovane: si ricorda poco, solo di essere salita su un elicottero che la portò a Kinshasa. Come Misenga, anche lei iniziò a fare judo in un centro per bambini sfollati. Nel 2013, quando andò a Rio de Janeiro per partecipare ai Campionati mondiali di judo, il suo allenatore le confiscò il passaporto e le impose un accesso limitato al cibo (una cosa che si ripeteva a ogni competizione internazionale). Mabika decise di lasciare il suo hotel e chiedere aiuto per strada: riuscì a ottenere poco dopo lo status di rifugiata. Misenga esordirà alle Olimpiadi mercoledì alle 15.35, nei sedicesimi di finale della categoria 90 chilogrammi. Mabika invece esordirà mercoledì alle 15, nella categoria dei 70 chilogrammi.