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  • Sabato 6 agosto 2016

Dieci grandi momenti olimpici, raccontati da dieci scrittori

Mischiando storie personali a cose viste in televisione da bambini: dai pugni chiusi di Smith e Carlos alla pallanuoto del 1956

Dick Fosbury alle Olimpiadi di Città del Messico (AP Photo)
Dick Fosbury alle Olimpiadi di Città del Messico (AP Photo)

In occasione delle Olimpiadi di Rio de Janeiro il New York Times Magazine ha chiesto a dieci tra scrittori, giornalisti, critici e autori di raccontare il ricordo più importante che hanno legato a un’Olimpiade. Ne sono usciti dieci racconti che collegano grandi avvenimenti sportivi a storie molto personali, legate alle famiglie degli scrittori o alle loro nazioni.

Alcuni momenti scelti sono famosissimi, come i pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968 o la finale dei 100 metri tra Carl Lewis e Ben Johnson nel 1988. Altri parlano di episodi meno famosi, come l’argento della canadese Elizabeth Manley nel pattinaggio di figura alle Olimpiadi invernali di Calgary del 1988, oppure successi molto tempo fa, come la semifinale di pallanuoto tra Unione Sovietica e Ungheria alle Olimpiadi di Melbourne del 1956. Uno non parla nemmeno di un vero e proprio avvenimento sportivo: riguarda il concerto di Lionel Richie alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, che portò la breakdance per la prima volta in diretta mondiale.

La rivoluzione di Dick Fosbury, Città del Messico 1968
Tom Whyman, filosofo e professore alla University of Essex, ha raccontato che quando era un ragazzo aveva un fisico poco adatto a fare sport, perché era debole, sovrappeso e con poco fiato. Amava comunque molto lo sport: non farlo e neanche guardarlo, ma piuttosto «pensare agli sport», leggere racconti e collezionare memorabilia vari. A Whyman piaceva sognare di poter diventare a sua volta un grande sportivo: sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta, ma fantasticava di «trovare qualche trucco o innovazione che mi piazzasse non solo al livello di tutti gli altri, ma sopra». In pratica, ha spiegato, sognava di essere come Dick Fosbury, il saltatore statunitense che negli anni Sessanta inventò la moderna tecnica di salto in alto, che da allora ha preso il suo nome.

Neanche Fosbury, da giovane, era un atleta fenomenale. Aveva iniziato con il salto in alto dopo aver provato con il football e il basket, e comunque senza grandi risultati: saltava 1,62 metri, mentre alle Olimpiadi dell’epoca si saltavano altezze intorno ai due metri, e il record mondiale era di 2,28 metri. Il metodo tradizionale per saltare in alto prevedeva che si saltasse frontalmente rispetto alla sbarra, scavalcandola con le gambe in due movimenti successivi: era molto complicato, e Fosbury trovava difficile coordinarsi. Cominciò quindi a provare tecniche diverse, finché capì che la migliore era quella di saltare ruotando in aria il corpo, per atterrare sulla schiena (era possibile anche perché in quel periodo si stavano diffondendo dei materassi più morbidi per attutire la caduta). In questo modo, nonostante alcune resistenze iniziali dei suoi allenatori, Fosbury migliorò incredibilmente i propri salti, arrivando ad altezze olimpiche e attirando le attenzioni dei media sportivi americani. Alle Olimpiadi del 1968 a Città del Messico, Fosbury vinse la medaglia d’oro, e stabilì il nuovo record olimpico, con 2,24 metri.

Whyman spiega che il salto di Fosbury lo affascina perché sembra incredibile che qualcuno ci abbia pensato, dato che va apparentemente contro la logica. Normalmente, scrive Whyman, alle Olimpiadi si vedono atleti che hanno passato la vita a ripetere movimenti meccanici che sono stati insegnati loro fin da bambini, sforzandosi di eseguirli alla perfezione: «c’è poco spazio nelle loro prove per la creatività, l’innovazione o l’astuzia. Ma un atleta come Fosbury può dare alle Olimpiadi una svolta, la spontaneità della vera arte».

Ben Johnson batte Carl Lewis, Seul 1988
Lo scrittore californiano Carvell Wallace ha raccontato che nel 1988, durante l’estate delle Olimpiadi di Seul, aveva 13 anni ed era a Los Angeles, dove si era trasferito da poco per stare con sua madre. La prima volta che era andato a trovarla era stato quattro anni prima, nel 1984, durante le Olimpiadi di Los Angeles: allora, la finale dei 100 metri la vinse Carl Lewis, in uno stadio a pochi chilometri da dove stava Wallace. Lewis, che in quelle Olimpiadi vinse altre tre medaglie d’oro, era uno degli sportivi più famosi al mondo, ed era celebrato e raccontato per la sua eleganza, la sua sicurezza di sé. Assomigliava un po’ alla madre di Wallace: «anche lei era intensa e ricercata, appariscente e competitiva. Anche lei aveva quel particolare tipo di bellezza che ti può fare sentire intimidito da qualcuno nello stesso tempo in cui ne sei inevitabilmente attratto».

L’estate del 1984 fu «l’estate d’oro», per Wallace, con la vittoria di Lewis e insieme a sua madre. Quattro anni dopo erano cambiate molte cose: «c’era la minaccia dello sfratto e di rimanere per strada. Avevo scoperto lo skateboard e le imprecazioni in segreto e il bere il gin da una bottiglia di plastica». Alle Olimpiadi del 1988 Lewis fu battuto nei 100 metri dal canadese Ben Johnson, che era schivo e non amava parlare in televisioni, al contrario di Lewis, che da quel momento fu criticato e condannato proprio per il suo carattere pieno di sé, per il quale era stato celebrato in precedenza.

Due giorni dopo, Johnson risultò positivo a un test antidoping, e Lewis fu dichiarato vincitore della medaglia d’oro. Si scoprì poi che anche Lewis aveva assunto sostanze dopanti proibite, e con lui altri due corridori arrivati nelle prime cinque posizioni. La finale dei 100 metri di Seul è ricordata come “la corsa più sporca della storia”, e negli anni successivi Lewis attraversò un momento di declino personale. «Vissi ogni sua sconfitta in modo personale. Volevo che Lewis fosse per sempre grande, come lo era stato nell’estate dell’84. Volevo che quel tipo di speranza – per lui, per mia madre, per me – continuasse in linea retta fino alla fine dei tempi. Ma dopo la sua sconfitta, niente fu più lo stesso. Niente lo è mai.»

L’aggressione a Nancy Kerrigan, Lillehammer 1994
Taffy Brodesser-Akner, una scrittrice che collabora con il New York Times, dice di non essere una tipa sportiva. Non le piacciono neanche le Olimpiadi, o almeno non le piacevano fino allo scandalo che nel 1994 coinvolse le pattinatrici americane Nancy Kerrigan e Tonya Harding. Il 6 gennaio del 1994, Nancy Kerrigan, che all’epoca aveva 24 anni ed era la campionessa americana di pattinaggio artistico, venne aggredita durante una sessione di allenamento: un uomo, che la aspettava all’uscita dell’anello, la colpì a un ginocchio con un manganello della polizia. L’uomo era Shane Stant, ex marito e guardia del corpo di Harding. Kerrigan era la più forte pattinatrice americana, Harding la seconda più forte.

Nonostante non avesse potuto qualificarsi ufficialmente, a Kerrigan fu concesso di partecipare alle Olimpiadi invernali del 1994 a Lillehammer. E ci andò anche Harding, nonostante le indagini ancora aperte sul suo coinvolgimento nell’aggressione. Kerrigan fece un’ottima prova, ma vinse solo l’argento: l’oro andò l’ucraina Oksana Baiul, dopo un giudizio molto contestato dagli americani. Harding invece andò malissimo e arrivò ottava. Dopo la prova, Kerrigan fu filmata mentre faceva commenti sprezzanti verso Baiul e la sua reazione alla vittoria, giudicata esagerata: perse così la simpatia dei media, che dopo l’aggressione avevano parteggiato molto per lei.

Brodesser-Akner ha detto di rendersi perfettamente conto che quello che coinvolse Kerrigan e Harding fu un episodio molto grave, ma ciononostante provocò in lei un interesse un po’ morboso verso le Olimpiadi, che le resero affascinanti: «avevamo per le mani un vero scandalo americano». Prima del 1994, ha scritto Brodesser-Akner, le Olimpiadi le parevano troppo rigide e regolate, troppo basate sulla mera abilità, e senza «uno sviluppo dei personaggi». «Uno scandalo così oscene portò una democrazia alle Olimpiadi che non c’era mai stata. L’America è fatta da tanti tipi; le Olimpiadi non tanto. E se sei uno con il gusto per l’orrido o per lo scandalo, le Olimpiadi ti lasciano molto spesso con un senso simile all’odio per te stesso. Quell’anno, le persone come me, con il cuore di pietra e quello che mia madre chiama “cattivo gusto” – e siamo molti, ho paura – capirono brevemente perché il resto di voi le ami così tanto».

I pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos, Città del Messico 1968
Jacqueline Woodson, una scrittrice afroamericana, ha scelto il momento in cui, dopo la finale dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, Tommie Smith e John Carlos alzarono il pugno chiuso, ricoperto da un guanto nero, durante la premiazione. Woodson aveva 5 anni, e ha raccontato che percepiva, senza capirlo del tutto, un alone di tristezza in casa sua, per le morti di Martin Luther King e di Robert Kennedy. Stava iniziando a capire di fare parte di una comunità, che c’era una “nostra gente”, e che doveva essere orgogliosa di essere nera. «Quei pugni viaggiarono da città del Messico a tutti gli angoli di tutte le case dei neri d’America. Molti sembravano arrabbiati per l’audacia del gesto dei nostri due nuovi eroi, ma le persone a cui volevo bene festeggiavano, si davano il cinque, ritagliavano articoli dal giornale, si affollavano davanti a schermi in bianco e nero per guardare quel momento più e più volte. Una parola che non conoscevo ancora – “solidarietà” – ritornava nelle loro conversazioni».

La fortissima Nazionale americana di basket femminile, Atlanta 1996
La giornalista freelance Jessica Luther ha raccontato di quando a 15 anni andò con sua madre a vedere una partita di basket femminile al Georgia Dome, durante le Olimpiadi di Atlanta del 1996. Giocavano gli Stati Uniti (Luther non ricorda contro chi), la cui squadra quell’anno era fortissima, composta per la prima volta non dai giocatrici del college. La popolarità di quella Nazionale, che vinse la medaglia d’oro, portò alla creazione della WNBA, la principale lega di basket femminile nordamericana. Nel 1996 Luther era alta e robusta, e stava ancora imparando come muoversi «in un mondo che non era molto adatto a ospitare ragazze teenager di 1,85 metri. C’era solo un posto dove succedeva: il campo da basket». Luther giocava da centro e da ala, e, ha raccontato, «finalmente il mio corpo serviva a qualcosa».

L’argento di Elizabeth Manley nel pattinaggio, Calgary 1988
La critica e giornalista Michelle Dean è partita dalla medaglia d’argento della pattinatrice Elizabeth Manley alle Olimpiadi invernali del 1988 a Calgary, in Canada, per spiegare qualcosa sulla competitività dei canadesi, e su come percepiscono la rivalità con gli statunitensi. Manley a Calgary fece un’esibizione fenomenale, la migliore della sua carriera, ma la medaglia d’oro la vinse Katarina Witt della Germania Est, che era fortissima e si vestì con un abito molto appariscente e con un trucco molto vistoso e insolito, attirando molte attenzioni. Il commentatore sportivo americano notò la bellezza di Witt, mentre per presentare Manley disse subito che da ragazza aveva avuto un tracollo nervoso e aveva messo su molto peso, che era già caduta in una gara importante, e «poteva vincere la medaglia di bronzo». Manley vinse l’argento e rischiò di vincere l’oro: Witt non fece una prova eccezionale, e l’americana Debi Thomas andò malissimo. In Canada si festeggiò come se fosse arrivata prima, ha raccontato Dean.

Una battuta comune negli Stati Uniti è “l’argento, anche conosciuto come l’oro dei canadesi”. Dean ha però spiegato che nonostante sia quasi impossibile spiegarlo agli americani, «non essere davvero i favoriti alla vittoria è, tipicamente, la condizione nazionale canadese. E a noi va bene. La giuria deve ancora decidere se Justin Trudeau farà niente al riguardo, ma io personalmente ne dubito. L’anima del nostro paese premia la vera competenza, che è quello che rende il Canada un bel posto per vivere, la maggior parte delle volte. L’eccellenza viene dopo, un bonus bellissimo che non ci si aspetta davvero». Anche se il Canada non vince molte medaglie d’oro, «abbiamo sempre quel particolare tipo di orgoglio che dipende dal fatto che abbiamo fatto del nostro meglio, nessuno ha perso la testa e tutto è stato raggiunto con il minimo dell’espansionismo, della megalomania o delle aspettative irrealistiche. È una forma di soddisfazione molto sottovalutata. Dovrebbero provarla più nazioni».

L’ottavo ostacolo di Lolo Jones, Pechino 2008
Greg Howard, che scrive per il New York Times, ha raccontato che vide la finale dei 100 metri a ostacoli femminile di Pechino 2008 dal suo dormitorio del college, dove giocava a calcio. L’americana Lolo Jones partì malino, ma si riprese in fretta: sembrava navigare perfettamente nel percorso, non tanto saltando gli ostacoli quanto camminandoci sopra ad ampie falcate». Al sesto ostacolo era prima, e prima di saltare l’ottavo era sola in testa: lo colpì però con il tacco della gamba davanti, inciampando e perdendo l’inerzia. Finì settima.

Howard ha raccontato che capì subito molto bene cosa provava Jones. Nella sua ultima partita di calcio alle scuole superiori, aveva scartato la difesa avversaria e si era ritrovato da solo davanti al portiere. Tutto gli sembrava calmo e silenzioso, in quel momento, prima che il portiere, tuffandosi, lo travolgesse, colpendogli il ginocchio. Si infortunò, e non giocò per sei mesi. Howard voleva continuare a giocare a calcio, e provò a costruirsi «una storia di redenzione». Presto però cominciò a scendere a compromessi: «Se non potevo essere un professionista, sarei stato titolare nella squadra di college. Se non potevo essere titolare, avrei segnato. Se non potevo segnare, avrei almeno giocato. Alla fine, ho abbassato le aspettative finché tutto quello che volevo era ritornare, per un ultimo momento, a quella calma inquietante, il sentimento di innalzarsi dal caos circostante». Nel 2012, Jones arrivò quarta alla gara dei 100 metri a ostacoli; nel 2014 partecipò alle Olimpiadi di Sochi nel bob, e la sua squadra arrivò undicesima. Quest’anno ha provato a qualificarsi alle Olimpiadi di Rio ma si è infortunata all’anca, ma ha detto che ci sarà nel 2020. «Sta scendendo a compromessi, come facevo io».

Unione Sovietica-Ungheria di pallanuoto, Melbourne 1956
La storia del giornalista sportivo Daniel Duane riguarda quella che forse è la partita di pallanuoto più famosa di sempre: Unione Sovietica-Ungheria, semifinale delle Olimpiadi di Melbourne del 1956. Quell’anno le Olimpiadi si svolsero tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, un mese dopo che l’Unione Sovietica aveva represso la rivoluzione ungherese, e la partita si portava quindi dietro molte storie e tensioni. Vinse per 4 a 0 l’Ungheria, ma fu una partita molto violenta, tanto che un giocatore russo tirò un pugno a Ervin Zador, uno dei più forti giocatori dell’Ungheria, che aveva segnato due reti nella partita. Dopo la partita, Zador e metà della squadra scapparono dall’Ungheria per trasferirsi negli Stati Uniti.

Duane giocò a pallanuoto nella squadra della sua scuola superiore, perché mancava un portiere e lui era alto. Duane definisce la pallanuoto «lo sport più bello che non interessa a nessuno. Se la gioca con il football per l’estrema sforzo mentale, la violenza permessa e la bellezza tecnica, ma è uno sport poco godibile da spettatori: troppe cose succedono sott’acqua». Prima di lui ci aveva giocato suo padre, alla University of California, e spesso gli aveva raccontato di quando aveva giocato contro Zador: «Era un giocatore incredibilmente scorretto. Ho sempre voluto ringraziare quel russo che ha tirato un pugno a quel bastardo».

Duane si rivendeva spesso l’aneddoto di suo padre, con ottimi risultati. Ha però scritto che solo di recente suo padre gli ha raccontato la verità su quella partita: intanto non aveva mai giocato nella squadra dell’università, ma era nella seconda squadra. Quella sera nel palazzetto c’era una nuotatrice con cui stava uscendo, e in un’azione Zador lo stava pressando: lui la passò al suo portiere, che però non stava guardando e si fece autogol. «Mi stai dicendo che Zador ti è stato così alle calcagna che ti sei fatto un autogol davanti alla tua nuotatrice? È per questo che lo insulti da anni?». Il padre ridendo gli disse di sì, e che quella sera era così deluso che si ubriacò e non rivide mai più la ragazza. Duane ha scritto anche che suo cognato ha trovato il lato positivo nella storia: «Sembra che tu debba a Zador la tua esistenza».

Abebe Bikila vince la maratona scalzo, Roma 1960
Nitsuh Abebe, editor del New York Times Magazine, ha raccontato che «una cosa divertente dell’essere un etiope-americano di nome Abebe è che un sacco di anziani sconosciuti ti vogliono parlare di Abebe Bikila». Bikila nel 1960 vinse la maratona delle Olimpiadi di Roma correndo scalzo: si era allenato così, e le scarpe Adidas che gli offrirono non gli stavano comode. Era etiope, e quindi proveniva da una delle poche colonie italiane, la cui occupazione era finita dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Secondo Abebe, la storia di Bikila rappresenta alla perfezione il mito delle Olimpiadi in cui un singolo individuo eccezionale può colmare il vuoto – economico, militare e di egemonia culturale – tra la sua nazione e le potenze mondiali. Secondo Abebe, però, questo non succede quasi mai, e si vedono pochi atleti da medaglia che provengono, per dire, dal Pakistan o dall’Indonesia.

«Per me in questi giorni è difficile vedere le Olimpiadi come qualcos’altro da un’esperimento scientifico molto costoso», dominato da «un pugno di stati sviluppati molto competitivi con risorse da investire nella produzione di medaglie». E la cosa diventa ancora più evidente nelle Olimpiadi invernali, secondo Abebe, nelle quali «una manciata di nazioni si premia a vicenda con delle medaglie per essere brave in prodezze bizzarre che la maggior parte degli uomini del pianeta non si sognerebbe neanche di provare, figuriamoci di costruire gli elaborati strumenti e piste e strutture coinvolte».

Lionel Richie e la breakdance in diretta, Los Angeles 1984
Wesley Morris, giornalista del New York Times Magazine, ha scelto invece un momento non strettamente sportivo: la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, e in particolare il concerto di Lionel Richie. «Nel 1984, Lionel Ritchie era un pezzo grosso: se non potevi avere Michael Jackson a chiudere il sipario alla tua cerimonia di chiusura, Richie andava benissimo lo stesso». Cantò “All Night Long”, circondato da decine di ballerini che ballavano la breakdance. «Neanche quando era una cosa Richie è stato fico: quei baffi e quei “riccioli alla Jheri”? Era un papà!». Ma era un grande intrattenitore, e Morris ha spiegato che non aveva mai visto nessuno prima prendere sul serio la breakdance: le telecamere riuscivano a malapena a stare dietro ai ballerini. Richie aveva portato le strade di Los Angeles in diretta mondiale, celebrandone il caos e la multiculturalità.