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  • Domenica 31 luglio 2016

Contro l’Islam politico

In diversi paesi i partiti islamisti hanno cominciato a chiedere elezioni democratiche solo per smantellare il sistema laico precedente, sostiene un giornalista del Wall Street Journal

Recep Tayyip Erdogan, a destra, e Muhammed Morsi, ex presidente dell'Egitto e leader dei Fratelli Musulmani, il 30 settembre 2012 (AP Photo/File)
Recep Tayyip Erdogan, a destra, e Muhammed Morsi, ex presidente dell'Egitto e leader dei Fratelli Musulmani, il 30 settembre 2012 (AP Photo/File)

Il recente colpo di stato fallito organizzato da parte dell’esercito turco contro il governo del presidente Recep Tayyip Erdoğan, di orientamento islamista e conservatore, e le misure prese da quest’ultimo nei giorni successivi (tra cui decine di migliaia di arresti) hanno fatto parlare di nuovo del rapporto tra religione islamica e politica. Sul Wall Street Journal Yaroslav Trofimov – apprezzato analista di cose mediorientali – ha fatto una dettagliata analisi di come in molti paesi dove la maggioranza della popolazione è musulmana si siano alternate fasi di regimi autoritari sostenuti dai militari e altre in cui partiti politici di orientamento religioso si sono imposti come forze politiche maggioritarie. Trofimov è critico nei confronti dei regimi autoritari laici, ma lo è molto anche verso i movimenti politici musulmani e l’Islam politico.

«Il ciclo di conflitti tra il trincerato “stato profondo”, quello dominato dai vertici dell’esercito e della sicurezza, e i partiti islamisti, pronti a prendere più potere possibile una volta eletti convinti che si tratti dell’unico modo per avere la garanzia di poter governare, è stata ed è la ragione principale per cui la democrazia non è riuscita a mettere radici in Medio Oriente».

Per anni in paesi come la Turchia e l’Egitto i politici di orientamento religioso, ultimamente più popolari, sono stati discriminati e perseguitati. L’esercito turco, ad esempio, ha sempre cercato di difendere l’impronta laica data allo stato da Kemal Atatürk, fondatore e primo presidente della Turchia. Nel 1997, quando Erdoğan era sindaco di Istanbul, l’esercito fece un colpo di stato contro l’allora primo ministro Necmettin Erbakan, un islamista che tra le altre cose si era opposto ai piani per l’entrata della Turchia nell’Unione Europea e che era il mentore di Erdoğan. In quell’occasione quattro partiti islamisti turchi furono messi fuori legge. Nel 1999 lo stesso Erdoğan fu temporaneamente bandito dalla vita politica per aver letto una poesia in cui i simboli dell’Islam – i minareti, le moschee e le loro cupole – erano paragonati alle armi. Il tentativo di colpo di stato del 15 luglio dimostra che nonostante Erdoğan abbia molto consenso, esiste ancora un’opposizione alla sua linea politica all’interno dell’esercito.

Secondo Trofimov, i movimenti politici di orientamento islamico come il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) di Erdoğan in Turchia, i Fratelli Musulmani in Egitto (di cui faceva parte Mohamed Morsi) e partiti di orientamento simile in Marocco e nella Striscia di Gaza hanno cominciato a usare il linguaggio del pluralismo politico e a chiedere elezioni democratiche non perché credessero nei valori della democrazia, ma perché la vedevano come uno strumento per smantellare il sistema laico che si è creato con la fine del colonialismo. Ad esempio nel 2005 durante un viaggio in Australia, Erdoğan – che allora era primo ministro – disse che vedeva la democrazia come “un mezzo”. Secondo Trofimov:

«I politici e gli elettori che credono nel primato della legge islamica si trovano inevitabilmente in conflitto con i principi democratici quando la maggioranza sceglie un percorso diverso. Dopotutto è per questa ragione che i gruppi più radicali, come lo Stato Islamico, hanno completamente rifiutato la democrazia, come se fosse un’eresia degli infedeli».

La visione di Trofimov si applica ancora meglio all’Egitto. Dal 1953 al 2011 l’Egitto fu governato da un regime militare; fino al 1984 i Fratelli Musulmani rimasero fuorilegge e diversi membri furono condannati a morte, tra cui il leader Sayyid Qutb. Finito il regime di Hosni Mubarak, destituito con la cosiddetta “primavera araba”, fu eletto presidente Mohammed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani: ma dopo solo qualche mese dall’elezione, nel 2012, Morsi cominciò a concentrare su di sé il potere, per esempio garantendosi l’immunità. Nel 2013 un colpo di stato mise fine al governo di Morsi e fu instaurato un nuovo regime autoritario, quello dell’ex generale Abdel Fattah al Sisi, che si è dimostrato ancora più duro di Mubarak. Da allora al Sisi ha fatto arrestare e condannare a morte centinaia di leader e simpatizzanti dei Fratelli Musulmani.

Nonostante i molti esempi negativi, Trofimov cita tre paesi a maggioranza musulmana che ritiene esempi positivi dal punto di vista politico. Il Senegal e l’Albania sono democrazie. La Tunisia è l’unico paese in cui la “primavera araba” ha portato a una democrazia ed è l’unico paese che Freedom House, organizzazione per la difesa dei diritti civili e politici, riconosce come “libero” tra i 17 paesi a maggioranza musulmana tra il Medio Oriente e il Nord Africa. Trofimov spiega che l’esito positivo della “primavera araba” in Tunisia è dovuto all’approccio pragmatico di Ennahda, il partito islamista locale più vicino ai Fratelli Musulmani. Ennahda ha accettato dei compromessi nella stesura della nuova Costituzione e non ha impedito lo svolgimento delle elezioni, in cui ha vinto il partito laico Nidaa Tounes.

L’Indonesia è il più popoloso dei paesi a maggioranza musulmana ed è uno stato democratico dal 1999: esistono dei partiti conservatori e islamisti anche lì, ma non sono mai diventati delle forze di maggioranza, soprattutto perché le richieste per regole più vicine ai dettami religiosi sono sempre state discusse a livello locale e non dal governo nazionale. Infine c’è il caso del Pakistan, che è il secondo paese musulmano per numero di abitanti. Dal 1999 al 2008 il Pakistan è stato governato da Pervez Musharraf, che prese il potere con un colpo di stato sostenuto dall’esercito. Musharraf ha continuato a beneficiare del sostegno dei militari anche in seguito – militari che mantengono ancora oggi un ruolo molto importante, soprattutto in politica estera –, ma dopo il 2008 si sono svolte elezioni libere. Oggi in Indonesia è più facile che gli islamisti si avvicinino più facilmente alle organizzazioni terroristiche, invece che alla vita politica nazionale.

Secondo Trofimov i problemi politici dei paesi musulmani non sono dovuti alla religione, come gli esempi positivi dimostrano, ma all’Islam politico, un’ideologia nata nel Ventesimo secolo in Egitto con i Fratelli Musulmani e che poi si è diffusa grazie ai ripetuti fallimenti dei regimi autoritari che predicavano idee socialiste o nazionaliste. Trofimov riconosce che anche nella storia dei paesi a maggioranza cristiana ci sono state leggi ingiuste scritte e approvate in nomi di principi religiosi, ma il fatto che l’Islam sia stato fondato da un uomo che fondò anche un impero fa sì che nel Corano si trovino molte più indicazioni su come lo stato e la società dovrebbero essere gestiti – lo storico slogan dei Fratelli Musulmani è “Il Corano è la nostra Costituzione”. A causa dei conflitti tra i partiti di orientamento religioso e i regimi autoritari, nei paesi a maggioranza musulmana i movimenti laici e democratici hanno faticato a emergere come terza opzione.

Trofimov ha scritto anche del rapporto dei paesi occidentali con i paesi a maggioranza musulmana. Secondo lui, l’Occidente ha spesso sostenuto i regimi militari “preferendo i mali delle dittature laiche, che conosceva, a quelli dei regimi islamici, che non conosceva” e ha fatto fatica a trovare un accordo tra “i propri ideali e i propri interessi”. Ad esempio, per anni gli stati occidentali hanno sostenuto Mubarak e altri dittatori. Gli Stati Uniti hanno criticato solo in parte gli abusi di al Sisi: finora sono sempre prevalsi ragionamenti di opportunità, come il fatto di ritenere indispensabili alcuni governi autoritari per limitare la diffusione del caos e, in alcuni casi, del terrorismo.