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  • Domenica 24 luglio 2016

Com’è finita in Sud Sudan?

Il vicepresidente e capo dei ribelli Riek Machar si è nascosto perché teme per la sua sicurezza: il presidente gli ha chiesto di tornare, i ribelli intanto lo hanno già sostituito

A Giuba, in Sud Sudan, centinaia di persone hanno protestato contro un intervento militare internazionale nel paese, il 20 luglio 2016 (AP Photo/Samir Bol)
A Giuba, in Sud Sudan, centinaia di persone hanno protestato contro un intervento militare internazionale nel paese, il 20 luglio 2016 (AP Photo/Samir Bol)

Da due settimane la situazione è tornata molto complicata in Sud Sudan, un paese nato quattro anni fa e già interessato da una guerra civile, finita l’estate scorsa. Il vicepresidente Riek Machar, capo di una milizia ribelle ostile al presidente Salva Kiir, si sta nascondendo dopo che due settimane fa c’è stata una serie di scontri tra la sua fazione e quella di Kiir. I nuovi scontri, durante i quali sono morte quasi 300 persone, hanno fatto temere che il conflitto ricominciasse. L’11 luglio il presidente Kiir ha dichiarato “il cessate il fuoco unilaterale” e “la fine delle ostilità” e da allora non ci sono state altre violenze: ma il fatto che Machar non voglia tornare alla vita pubblica potrebbe far aumentare la tensione. Kiir gli ha dato tempo fino a domenica per farsi vedere a Giuba, la capitale del Sud Sudan. Nel frattempo, una fazione interna alla ribellione ha sostituito Machar con un altro capo dei ribelli.

Il conflitto tra Kiir e Machar era iniziato nel 2013, quando il presidente rimosse Machar dalla carica di vicepresidente: la guerra civile si è conclusa nell’agosto 2015 con un trattato di pace, che in molti hanno giudicato molto fragile. Ora Machar ha detto che tornerà a Giuba solo quando ci sarà un corpo militare internazionale dell’Unione Africana a tenere separate le fazioni rivali. Negli ultimi scontri la sua abitazione è stata bombardata.

Quello con Kiir non è l’unico problema, per Machar: parte dei ribelli ha deciso che il nuovo viceministro sarà Taban Deng Gai, attuale ministro delle Miniere e principale negoziatore dell’opposizione. Il capo dello staff di Deng ha detto che sarà il vicepresidente fino al ritorno di Machar in modo che le negoziazioni per il processo di pace con Salva Kiir possano continuare. Un portavoce di Machar, anche lui nascosto lontano da Giuba, ha detto però che nel frattempo Machar ha licenziato Deng come principale negoziatore dell’opposizione e che la sua nomina fa parte di una cospirazione per togliergli il potere.

Da parte sua Deng ha detto ad Al Jazeera che non è vero che Machar lo ha licenziato. Deng ha anche detto che non è necessario l’intervento dell’Unione Africana per risolvere la situazione. Il portavoce del governo Michael Makuei ha detto che Kiir non ha problemi a trattare con un sostituto di Machar.

Le fazioni di Kiir e Machar si distinguono non in base a diverse ideologie politiche, ma perché i loro membri fanno parte di due gruppi etnici distinti: Kiir e i suoi sono Dinka, Machar e i suoi sono Nuer. Il corrispondente in Africa orientale del New York Times Jeffrey Gettleman ha spiegato che è molto semplice distinguere i Nuer dai Dinka per via delle cicatrici rituali che gli adulti dell’uno e dell’altro gruppo etnico hanno sulla fronte. Le più comuni tra i Nuer sono sei linee orizzontali, mentre i Dinka hanno linee oblique, disposte a formare una specie di cuneo diretto verso il naso. A causa delle cicatrici i civili dell’una e dell’altra parte possono essere facilmente riconosciuti dalla fazione opposta e rischiare la vita solo mostrandosi; di solito, ciascuno dei campi profughi gestiti dalla UNMISS, la missione ONU nel paese, ospita solo uno dei due gruppi etnici, per questo molte persone temono che i campi di una fazione potrebbero essere attaccati da quella opposta se dovessero ricominciare gli scontri militari.

Nella scorsa settimana più di 26mila abitanti del Sud Sudan, soprattutto donne e bambini, sono andati a sud verso l’Uganda, dove ci sono numerosi campi profughi, ha detto l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR); fino a 8.300 in un giorno solo, un record per quest’anno.