Rembrandt usava degli specchi per farsi gli autoritratti?

Lo sostiene il pittore Francis O'Neill, andando contro molti indignati storici dell'arte ma riprendendo una teoria che gira da qualche anno

Dettaglio di un autoritratto di Rembrandt del 1659 conservato alla National Gallery of Art di Washington (Wikimedia Commons)
Dettaglio di un autoritratto di Rembrandt del 1659 conservato alla National Gallery of Art di Washington (Wikimedia Commons)

La rivista scientifica Journal of Optics ha pubblicato un articolo in cui sostiene che gli autoritratti di Rembrandt – il famoso pittore olandese vissuto nel Diciassettesimo secolo – sono precisi e realistici perché realizzati con l’aiuto di un sistema di specchi che permetteva di proiettare l’immagine dell’artista su una superficie su cui potevano essere tracciati dei contorni. L’articolo si intitola “Rembrandt’s self-portraits” e l’autore è il pittore e insegnante inglese Francis O’Neill. La teoria espressa da O’Neill va contro la maggioranza degli storici dell’arte, secondo cui Rembrandt disegnava solo a mano libera. O’Neill spiega che all’epoca di Rembrandt era possibile costruire un sistema ottico per realizzare autoritratti realistici e dà una serie di argomentazioni per sostenere che fosse possibile e probabile che Rembrandt ne usasse uno.

La teoria di O’Neill

La teoria di Francis O’Neill si basa sull’ipotesi che Rembrandt, e altri pittori di quel periodo, disponessero di uno specchio concavo e di uno piatto. L’artista posizionava i due specchi in modo da ottenere un riflesso del proprio volto, di profilo o dritto, su una superficie sopra la quale poi tracciava i contorni. L’immagine proiettata era invertita, dunque con il mento in alto e la fronte in basso: secondo O’Neill questo fatto aiutava l’artista a tracciare i contorni così come apparivano, più realisticamente, senza lasciarsi influenzare da preconcetti sulla forma del proprio viso.

Nel suo articolo, O’Neill ha inserito alcuni schemi che mostrano come erano disposti gli specchi usati da Rembrandt: in tutti i casi considerati l’artista si rifletteva in uno specchio piatto e poi la sua immagine si rifletteva a sua volta in uno specchio concavo, e da lì sulla superficie su cui l’artista tracciava i contorni. A seconda delle posizioni degli specchi, veniva proiettato o l’intero corpo o solo il viso dell’artista. Grazie a specchi abbastanza grandi, Rembrandt avrebbe potuto dipingere i suoi autoritratti a grandezza naturale.

specchi_rembrandt_1Due diversi sistemi ottici che Rembrandt potrebbe avere usato secondo Francis O’Neill, da Rembrandt’s self-portraits; in inglese “mirror” significa “specchio”

Per usare il sistema di specchi era necessario un ambiente illuminato dalla luce naturale, ma non completamente: la luce doveva essere concentrata sui dettagli che si volevano proiettare, in modo che risaltassero sul fondo buio. O’Neill ha inserito nell’articolo e pubblicato su Facebook una fotografia in cui mostra come si può ottenere un riflesso del proprio volto proiettato su una superficie fatta di rame.

A sostegno della teoria di O’Neill

La prima argomentazione di O’Neill a sostegno della sua tesi è che i pittori olandesi del Diciassettesimo secolo avessero accesso ai migliori specchi che si potessero fabbricare all’epoca, per via dei rapporti tra pittori e fabbricanti di lenti e specchi. Nell’Olanda dell’epoca si fabbricavano lenti con un diametro fino a 30 centimetri: quelle fino a 10 centimetri di diametro erano facili da ottenere, e si sa che amici e conoscenti di Rembrandt e Vermeer – un altro importante pittore olandese di quel periodo – possedevano strumenti ottici all’avanguardia. Si sa anche che gli specchi concavi esistono fin dai tempi di Archimede – che ne avrebbe usato uno per dare fuoco alle navi romane – e che Leonardo da Vinci ne conosceva l’uso, come anche quello delle camere oscure.

O’Neill ha notato poi che alcuni dei primi autoritratti di Rembrandt, molto piccoli per dimensione, erano incisi sul rame, che è un materiale su cui è molto facile fare delle proiezioni. Inoltre due dei primi autoritratti dipinti da Rembrandt non sono olii su tela, ma olii su rame, un materiale che non è mai stato usato comunemente come superficie per dipinti. Il fatto che queste opere siano di piccole dimensioni implicano che per realizzarle non servivano grandi specchi, ma ne bastavano di più piccoli ed economici, più facilmente reperibili per un giovane artista.

Rembrandt_autoritratto_1630Autoritratto ad occhi aperti di Rembrandt, un’incisione grande 5 centimetri per 4,5 del 1630, conservata al Rijksmuseum di Amsterdam (Wikimedia Commons)

La seconda argomentazione di O’Neill che riguarda i quadri di Rembrandt è che nei suoi autoritratti gli occhi dell’artista non guardano quasi mai dritto, come sarebbe successo se l’artista avesse disegnato osservando uno specchio che rifletteva la sua immagine. Inoltre il fatto che in alcuni autoritratti Rembrandt ha un’espressione difficile da mantenere a lungo – come la risata di Rembrandt che ride – potrebbe indicare che l’artista segnava velocemente i contorni della propria espressione su una superficie senza doversi girare più volte verso uno specchio posto frontalmente a lui.

Rembrandt_autoritratto_1629Rembrandt che ride, olio su rame del 1628, grande 22,2 centimetri per 17,1, conservato al Paul Getty Museum di Los Angeles (Wikimedia Commons)

L’uso frequente del chiaroscuro, cioè del contrasto tra zone illuminate e buie nei dipinti, sarebbe un’altra prova del fatto che Rembrandt usasse il sistema di specchi: sarebbero state necessarie le condizioni di luce che si vedono nella maggior parte dei suoi autoritratti, luce sul volto e buio attorno. O’Neill cita poi altre caratteristiche dei quadri di Rembrandt, interpretandole come prove della sua teoria: tra queste il fatto che le riproduzioni di mani intrecciate (che Rembrandt non avrebbe mai potuto disegnare usando il sistema degli specchi, per ovvie ragioni) sono meno realistiche di quelle delle mani prese singolarmente e che negli ultimi autoritratti le dimensioni della sua testa siano sempre più o meno uguali, cosa che indicherebbe che il pittore usava sempre lo stesso sistema di specchi.

Un’altra teoria simile a quella di O’Neill

O’Neill non è il primo a sostenere che opere d’arte antiche siano state disegnate usando degli specchi. Già nel 2001 il famoso pittore inglese David Hockney e il fisico Charles Falco, che insegna scienze ottiche all’Università dell’Arizona, dissero che dal Rinascimento in avanti i grandi pittori hanno usato lenti, specchi e camere oscure per fare quadri molto realistici: è una teoria nota come tesi Hockney-Falco. Uno dei principali critici alla tesi Hockney-Falco è l’esperto di ottica David G. Stork, che disse di aver trovato delle discrepanze nell’analisi delle opere scelte dai due; a sua volta Falco accusò Stork di essersi inventato dei dati. Nel suo articolo, O’Neill dice che la critica principale a Hockney e Falco fu che i pittori non avrebbero avuto bisogno di sistemi ottici per fare quadri realistici dato che i loro autoritratti (che si pensano realizzati con un unico specchio, quello che rifletteva l’immagine dell’artista) erano altrettanto realistici: per questo la teoria di O’Neill sarebbe un corollario della tesi Hockney-Falco.

Charles Falco ha elogiato l’articolo di O’Neill, mentre David Stork ha detto che se veramente i quadri fossero stati dipinti con l’immagine del volto invertita, il verso delle pennellate sarebbe dal basso verso l’alto una volta orientato il quadro nel modo giusto: cosa che non si vede nelle opere di Rembrandt. A questa critica O’Neill ha risposto dicendo che può darsi che Rembrandt usasse gli specchi per tracciare i contorni e segnare le proporzioni, ma poi dipingesse a mano libera e con la tela orientata nel modo giusto dopo averci trasferito i contorni. L’altra obiezione di Stork è che non ci sono documentazioni storiche che parlano di sistemi di specchi nello studio di Rembrandt, che era frequentato da molte persone: secondo l’interpretazione di O’Neill, il fatto che ci fossero degli specchi nello studio di un pittore non doveva essere strano all’epoca e per questo non c’era ragione che qualcuno ne scrivesse.