Vita da macchinisti

Francesco Merlo ha ascoltato come sono quelle di chi lavora sulla tratta pugliese dove c'è stato l'incidente

Franco Silvi (ANSA)
Franco Silvi (ANSA)

Francesco Merlo, su Repubblica, ha raccontato come siano le vite dei macchinisti, di quelli che in qualche modo hanno avuto a che fare con l’incidente di lunedì 11 luglio in Puglia ma anche di tanti altri per cui la cabina è “il cielo in una stanza”. Leggendo le storie di queste persone si capisce qualcosa di più su cosa ci sia oltre i tanti titoli sull’errore umano e il dolore di questi giorni: gente appassionata del lavoro che fa, che spesso ha avuto un padre ferroviere, che vota a sinistra e per cui “il tic tac dell’orologio è il nostro respiro, il miracolo della puntualità è la nostra forza”, ma che fa un lavoro difficile e faticoso che in pochi conoscono e sanno spiegare, soprattutto ora che “tutti sono diventati esperti di treni, scambi, binari, elettrificazione, infrastrutture”.

“LEI mi chiede cosa ha visto, cosa ha capito e cosa ha fatto il mio amico Albino in quella cabina che per noi macchinisti, mi creda, è il cielo in una stanza “. Glielo chiedo perché, per me, la locomotiva che “corre, sempre più forte / e corre verso la morte” è ancora quella di Guccini, “il mostro strano / che l’uomo dominava con il pensiero e con la mano”. Dunque, ingenuamente, immagino che il suo amico sia morto come aveva vissuto. “Lei se lo immagina che, nel suo ultimo momento, cerca il freno, preme bottoni, inventa soluzioni “. E invece ha gridato e si è messo le mani nei capelli?

“Quello sicuramente no, perché Albino i capelli non li aveva”. E però Albino ha visto il treno che gli volava addosso. “Sì, ma mentre capiva non era più tra i vivi”. Com’era Albino De Nicolo? “Era piccolo e calvo ma aveva gli occhi sporgenti, occhi di ferroviere, occhi che non si spaventano mai. E poi Albino rideva sempre. Quando gli altri gridano, lui rideva”. Come Mangiafuoco che invece di piangere starnutiva? “Forse perché era di Terlizzi, un paese allegro”. Il paese di Vendola. Albino aveva figli? “Sì. Uno è stato assunto in azienda: capotreno pure lui”. Vi frequentavate solo sul treno? “No. Andavamo con le famiglie a mangiare in campagna. Lui era più vecchio di me”.

Angelo Cirone, che ora di Albino di sente orfano, si presenta così: “Macchinista, figlio di macchinista. Purtroppo però da un po’ di tempo mi hanno trasferito in ufficio perché mi sono ammalato. Ma il treno mi manca. Io sono orgoglioso di essere nato e di essere diventato grande sotto lo sguardo di quegli occhi di ferroviere “. Cirone racconta il ferroviere come l’eroe di Vittorini, come il duro di Piero Germi. E lavora appunto per la Ferrotramviaria, l’azienda del crash dell’altro ieri, quella della contessa Pasquini: “Un’impresa magnifica, e una signora simpatica, una dirigente attenta, mi creda “. Però il sistema di sicurezza era antiquato. “Ma legale. E stavano per appaltare l’ammodernamento anche di quel maledetto tratto”. Conosce i due capistazione che si sono telefonati? “Certo che li conosco. Ma preferirei non parlare di loro. Sono stati sospesi, c’è l’inchiesta giudiziaria”. Non si sono capiti? “Evidentemente no”.

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