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  • Mercoledì 13 luglio 2016

È morto Bernardo Provenzano

Considerato il capo di Cosa nostra, aveva 83 anni, da 10 era in carcere ed era malato da tempo

Bernardo Provenzano (ANSA)
Bernardo Provenzano (ANSA)

È morto Bernardo Provenzano, considerato il capo dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, aveva 83 anni ed era in carcere dall’aprile del 2006, quando era stato arrestato dopo una latitanza durata 43 anni, durante la quale era stato condannato in contumacia a tre ergastoli. Da tempo Provenzano era malato ed era stato ricoverato a inizio aprile all’ospedale San Paolo di Milano, dove è morto oggi.

Provenzano era nato a Corleone, in provincia di Palermo, il 31 gennaio del 1933 da una famiglia di agricoltori, aveva lasciato la scuola dopo la seconda elementare e aveva cominciato a lavorare come bracciante insieme al padre. Da giovanissimo iniziò una serie di attività illegali, come il furto di bestiame, e si legò alla cosca mafiosa locale gestita da Luciano Liggio. Il 10 settembre del 1963 venne denunciato per l’omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva e anche per associazione per delinquere e porto abusivo di armi. Fu allora che cominciò la sua lunga latitanza. Secondo le dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia Provenzano diventò uno dei capi delle famiglie di Corleone nel 1974, dopo l’arresto di Liggio, insieme a Salvatore Riina, detto Totò.

Nel 1981 Provenzano e Riina diedero inizio alla cosiddetta «seconda guerra di mafia», un conflitto interno a Cosa Nostra – dopo quello dei primi anni Sessanta – con cui eliminarono i boss rivali e imposero una “dirigenza” composta soltanto da persone a loro fedeli. Provenzano gestiva soprattutto gli affari e le relazioni politiche attraverso Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo. Nel 1992 dopo il cosiddetto Maxiprocesso che portò alla condanna all’ergastolo di molti capi mafiosi, la mafia aumentò il numero di violenze e attentati contro lo Stato. Gli inizi degli anni Novanta furono quelli dell’omicidio del parlamentare siciliano della DC Salvo Lima (12 marzo 1992) e dell’imprenditore Ignazio Salvo (17 settembre 1992), delle stragi di Capaci (23 maggio 1992) e di via D’Amelio (19 luglio 1992) contro i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, delle bombe in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993) e in via Palestro (27 luglio 1993) a Milano, delle autobombe esplose a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro, a Roma, e del fallito attentato contro il giornalista Maurizio Costanzo (14 maggio 1993). Nel 1993, dopo l’arresto di Riina, Provenzano riuscì a conciliare la fazione favorevole a continuare la stagione degli attentati contro lo Stato e quella contraria.

Le indagini sulla latitanza di Provenzano furono complicate da una serie di mancati arresti le cui conseguenze giudiziarie arrivano fino ad oggi. Lo scorso maggio La Corte d’Appello di Palermo ha confermato la sentenza di assoluzione emessa in primo grado nel 2013 nei confronti dell’ex generale dei carabinieri Mario Mori e del colonnello dei carabinieri Mauro Obinu nel processo che li aveva coinvolti per favoreggiamento aggravato a Provenzano. Mori e Obinu erano accusati dalla procura generale di Palermo di non aver arrestato il boss mafioso nel 1995, nonostante ne avessero avuto la possibilità. Il processo contro Mori e Obinu era cominciato dopo le dichiarazioni di un altro colonnello dei carabinieri, Michele Riccio, che aveva sostenuto che il Reparto Operativo Speciale (ROS), l’organo dei carabinieri che si occupa di criminalità organizzata e del quale Mori era comandante, aveva ricevuto l’informazione che Provenzano avrebbe partecipato a una riunione mafiosa nelle campagne di Mezzojuso, in provincia di Palermo, il 31 ottobre 1995. Secondo Riccio il ROS avrebbe avuto la possibilità di intervenire e arrestare Provenzano, ma Mori e Obinu (che era un suo sottoposto) non diedero l’autorizzazione all’arresto.

Provenzano fu arrestato in un casolare vicino a Corleone solo nell’aprile del 2006 grazie all’intercettazione dei famosi “pizzini”, biglietti di carta con cui il boss comunicava con la famiglia e il resto del clan. Venne portato alla questura di Palermo e poi nel carcere di Terni, sottoposto al regime del 41 bis che prevede carcere duro e isolamento per i detenuti accusati di appartenere a organizzazioni criminali. Provenzano venne poi trasferito a Novara e a Parma; nel 2011 gli venne diagnosticato un cancro alla vescica: tentò anche il suicidio infilando la testa in una busta di plastica ma venne salvato da un poliziotto della prigione. Nel maggio del 2013 Servizio Pubblico, programma condotto da Michele Santoro su La7, aveva trasmesso un video del 15 dicembre 2012 ripreso dalle telecamere di sorveglianza del carcere di Parma: il video mostrava un incontro tra Bernardo Provenzano e la compagna e il figlio minore. Nel video Provenzano appariva molto confuso e con diverse difficoltà a parlare e a rispondere alle domande.

Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumacia per tre volte: nel 1995 per l’omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo, nel 1997 nel processo per la strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone e nel 2000 per gli attentati del 1993 a Firenze, Milano e Roma. Nel 2009, dopo l’arresto, Provenzano ricevette un altro ergastolo con Salvatore Riina per la strage di viale Lazio, un regolamento interno a Cosa Nostra avvenuto a Palermo nel dicembre del 1969.

Provenzano fu anche coinvolto con altri boss mafiosi nel cosiddetto processo per la “trattativa Stato-mafia” cominciato nel 2013. La sua posizione venne però stralciata perché, secondo i periti, non era in grado di partecipare coscientemente al processo.