Il bilancio di Tito Boeri sul Jobs Act

Il presidente dell'INPS ha presentato il rapporto annuale dell'istituto, spiegando i benefici, i limiti e le preoccupazioni sulla riforma del lavoro del governo Renzi

(ANSA/FABIO CAMPANA)
(ANSA/FABIO CAMPANA)

Giovedì 7 luglio l’INPS, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, ha presentato alla Camera il suo XV rapporto annuale. Il presidente dell’INPS Tito Boeri ha scritto una relazione in cui fa un bilancio dei risultati delle politiche dell’istituto nell’ultimo anno, parlando tra le altre cose delle buste arancioni (la campagna promossa per informare alcuni iscritti sulle loro prospettive di pensionamento), e della proposta all’Unione Europea di istituire un codice di protezione sociale che valga per tutti i paesi membri. Boeri ha anche fatto un bilancio sugli effetti del Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro promossa dal governo Renzi e approvata nel dicembre del 2014, sostenendo che con la legge delega e i suoi decreti applicativi «si è davvero finalmente pensato ai giovani e al loro ingresso nel mercato del lavoro».

Boeri spiega che con il Jobs Act sono aumentate le assunzioni con contratti a tempo indeterminato, «ai danni dei contratti a tempo determinato»: i primi sono aumentati del 62 per cento, e del 76 per cento tra i giovani con meno di trent’anni, mentre i secondi sono scesi, per i giovani della stessa fascia di età, dal 37 per cento al 33 per cento. Boeri ricorda comunque che nonostante l’ultimo anno sia stato positivo in questo senso, «ce ne vorrebbero tanti altri per riassorbire i livelli inaccettabili della disoccupazione giovanile e per capitalizzare sulla stabilizzazione, legando le assunzioni con contratti a tempo indeterminato a investimenti in formazione sul posto di lavoro, in modo da creare lavori più produttivi e meglio retribuiti».

Con la legge di stabilità del 2014 è stato istituito il cosiddetto “esonero contributivo triennale”, cioè un’esenzione che permetteva ai datori di lavoro di non versare per tre anni i contribuiti all’INPS sui contratti a tempo indeterminato stipulati entro il dicembre del 2015. Boeri dice che l’esonero ha provocato un evidente aumento dei contratti di questo tipo, al quale però è seguito un calo altrettanto evidente dei contratti a tempo indeterminato nei primi mesi del 2016 (quando cioè è scaduta la possibilità di usufruire dell’esonero). È successo perché, come spiega Boeri, «le imprese hanno preferito anticipare assunzioni previste per il 2016 nell’ultimo mese del 2015 in modo tale da poter fruire dello sgravio». Sarebbe stato preoccupante, secondo Boeri, se la riduzione dei contratti a tempo indeterminato nel 2016 li avesse riportati, complessivamente, al numero di quelli precedenti al Jobs Act: dice però che non è stato così, e «al netto del “calo fisiologico” di inizio 2016, il numero di contratti a tempo indeterminato è aumentato di più di mezzo milione nel 2015». Il numero di contratti totali a tempo indeterminato, dice Boeri, probabilmente non crescerà ulteriormente nel 2016, dopo «il grande balzo del 2015», ma neanche dovrebbero diminuire, perché negli ultimi mesi sono tornati a crescere a ritmi compatibili a quelli degli anni precedenti al Jobs Act.

Una preoccupazione, adesso, è legata al fatto se i nuovi contratti a tempo indeterminato siano dipesi esclusivamente dall’esonero fiscale, «dato che questi incentivi sono destinati a ridursi se non ad esaurirsi nei prossimi anni». Boeri dice comunque che sembra non essere così, perché hanno avuto un ruolo importante anche i contratti a tutele crescenti, cioè i nuovi contratti previsti dal Jobs Act che prevedono un aumento progressivo negli anni delle garanzie per il lavoratore. Boeri dice che i nuovi contratti a tempo indeterminato sono aumentati nelle imprese tra i 15 e i 19 dipendenti, nelle quali i contratti a tutele crescenti si applicano effettivamente nel regolare le modalità di licenziamento, mentre sono aumentati meno quelli delle imprese più piccole, in cui i contratti a tutele crescenti hanno conseguenze pratiche meno rilevanti.

Secondo i dati dell’INPS, che sono di tipo amministrativo – quindi si basano sui registri delle amministrazioni – e non statistico, come quelli dell’ISTAT – che quindi si basano su indagini campionarie – dicono che nel 2015 i licenziamenti sono diminuiti del 12 per cento rispetto al 2014: secondo Boeri più di quanto ci si aspettasse. Boeri aggiunge che il dato è una prova del fatto che «il contratto a tutele crescenti non è fatto per licenziare, ma per stabilizzare l’impiego, incentivando investimenti in capitale umano», e smentisce le preoccupazioni legate alle modifiche nelle modalità di reintegro dei lavoratori dipendenti licenziati decise dai giudici.

Boeri continua sottolineando che le nuove assunzioni a tempo indeterminato dovute al Jobs Act non sono state tutte a tempo pieno, anzi: in 4 casi su 10 sono contratti part-time, e tra quelli a tempo pieno molti (il 50 per cento in Lombardia, il 75 per cento in Campania, per esempio) «comportano meno di 312 giorni remunerati direttamente dall’impresa all’anno». Secondo Boeri è un sistema adottato dai datori di lavoro «per ridurre il costo del lavoro, agendo sugli orari anziché sui salari».

La questione legata al Jobs Act sulla quale Boeri è più critico è quella dei voucher, i “buoni lavoro” dal valore nominale di 10 euro (di cui 7,50 vanno al lavoratore) che per legge dovrebbero essere usati dai datori di lavoro per pagare i lavoratori che svolgono lavori accessori, cioè saltuari e non riconducibili a contratti di lavoro. In 4 casi su 10, secondo i dati dell’INPS, i voucher rappresentano però l’unica fonte di reddito del lavoratore che li riceve, e in un caso su 6 il lavoratore non ha una posizione previdenziale. L’INPS ha realizzato un’indagine con Veneto Lavoro, un ente della regione Veneto, quella in cui sono più diffusi i voucher: è venuto fuori «come i voucher siano stati utilizzati spesso con finalità molto diverse da quelle che si era posto il legislatore all’atto della loro prima introduzione, coinvolgendo una platea molto più ampia di quella inizialmente prefigurata». Una possibile soluzione proposta da Boeri è quella di limitare la possibilità di utilizzare i voucher ai settori in cui è più diffuso il lavoro in nero.

Sul NASPI, il nuovo sistema per calcolare l’indennità di disoccupazione che ha sostituito nel 2015 l’ASPI, Boeri dice che «ha allungato la durata massima delle prestazioni dei sussidi di disoccupazione di quasi due mesi in media per chi ha perso il lavoro negli ultimi due anni», e che in totale ne hanno usufruito un milione e mezzo di persone. Ci sono però ancora molti lavoratori, dice Boeri, come quelli del settore agricolo, che non possono usufruire di questi vantaggi, e in generale solo il 45 per cento dei lavoratori è coperto dalla Cassa Integrazione. Boeri lamenta un’eccessiva differenza di trattamento, in questo senso, tra i lavoratori delle diverse categorie.