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  • Lunedì 4 luglio 2016

L’operazione Entebbe, 40 anni fa

Cioè una delle operazioni militari più spericolate e spettacolari della storia, realizzata da Israele in Uganda con vaste conseguenze

Alcuni ostaggi israeliani al loro ritorno a Tel Aviv (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)
Alcuni ostaggi israeliani al loro ritorno a Tel Aviv (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)

Nella notte tra il 3 e il 4 luglio del 1976, un commando di militari israeliani assaltò l’aeroporto internazionale di Entebbe, in Uganda, per liberare 106 passeggeri e membri dell’equipaggio del volo Air France 139, tenuti in ostaggio da un gruppo di terroristi palestinesi e tedeschi. In quello che fu probabilmente una delle operazioni militari più spettacolari della storia, 190 soldati israeliani volarono per più di 4.000 chilometri, attaccarono un aeroporto difeso dai militari ugandesi e liberarono 102 dei 106 ostaggi, riuscendo nel frattempo a distruggere buona parte della flotta aerea del dittatore ugandese Idi Amin. Tre ostaggi rimasero uccisi nell’operazione, insieme al comandante del commando, Jonathan Netanyahu, il fratello dell’attuale primo ministro di Israele.

Il volo Air France 139 era partito il 27 giugno del 1976 dall’aeroporto di Tel Aviv diretto a Parigi. Alle 12.30 fece scalo ad Atene, dove imbarcò altri 58 passeggeri, tra cui i quattro dirottatori: due palestinesi, membri del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FLP, un’organizzazione terroristica di ispirazione marxista), e due tedeschi delle Cellule rivoluzionarie, un’altra organizzazione di estrema sinistra. Alle 12.45 la torre di controllo di Atene perse il contatto con l’aereo: dopo pochi minuti divenne chiaro che l’aereo era stato dirottato. Il volo 139 ricomparve a Bengasi, in Libia, dove il dittatore Muammar Gheddafi concesse ai dirottatori di atterrare, di rifornire di carburante l’aereo e di ripartire. Il 28 giugno l’aereo atterrò all’aeroporto internazionale di una piccola e semisconosciuta città africana: Entebbe, in Uganda.

All’epoca il paese era governato da Idi Amin Dada, uno dei più eccentrici dittatori che l’Africa abbia mai avuto. Negli anni Settanta, all’inizio della sua ascesa al potere, Amin era sostenuto dagli Stati Uniti e dal Regno Unito in chiave anti-sovietica, mentre Israele era uno dei suoi principali fornitori di armi. Come molti regimi africani dell’epoca, nel corso degli anni Amin rivoluzionò le sue alleanze e nel 1976 si trovava dall’altra parte, alleato dell’Unione Sovietica e della Libia di Gheddafi. Col tempo sviluppò una speciale ossessione per gli israeliani e in alcune interviste arrivò persino a parlare di fantasiosi progetti di invasione del paese. Quando il 28 giugno l’aereo Air France arrivò a Entebbe, i dirottatori furono accolti dall’esercito ugandese, che si dispose a protezione dell’aereo, mentre altri quattro terroristi si aggiungevano al gruppo.

Amin si offrì pubblicamente come mediatore per risolvere la crisi, ma di fatto prese esplicitamente posizione a favore dei dirottatori. Gli ostaggi furono trasferiti in un terminal in disuso dell’aeroporto, circondato da decine di militari ugandesi. I cittadini israeliani furono separati dagli altri, che furono liberati nel corso dei giorni successivi. Il gesto ricordò a molti le persecuzioni naziste e fu molto criticato e discusso, persino dai numerosi simpatizzanti della causa palestinese e dei movimenti di sinistra radicale. In quei giorni i dirottatori fecero sapere le loro richieste: 5 milioni di dollari di riscatto per l’aereo e la liberazione di più di 50 attivisti favorevoli alla causa palestinese. Per giorni il governo israeliano cercò di trattare con i dirottatori, senza ottenere risultati. Anche l’OLP, all’epoca la principale organizzazione per la liberazione della Palestina e rivale del FLP, cercò di negoziare, ma il capo del commando si rifiutò di incontrare il mediatore palestinese. Per quasi una settimana le trattative proseguirono e il governo israeliano fu sul punto di accettare le condizioni per la liberazione dei prigionieri.

Il 3 luglio i comandanti dell’esercito israeliano proposero un piano per liberare gli ostaggi. Sulla carta sembrava assurdo: si trattava di trasportare per migliaia di chilometri decine di soldati israeliani da utilizzare per attaccare l’aeroporto, e anche i mezzi pesanti per difenderli dai contrattacchi durante le operazioni di rifornimento degli aerei. Il tutto in un paese ostile, dotato di un’aviazione non certo moderna ma più che in grado di abbattere un gruppo di lenti aerei da trasporto. Grazie all’appoggio del governo del Kenya, che fu persuaso a offrire le sue basi per rifornire gli aerei israeliani, l’operazione sembrò possibile anche se rischiosa. Dopo una concitata e difficile riunione del Consiglio dei ministri, il governo israeliano diede il via libera all’operazione alle 18.30 del 3 luglio. Poche ore dopo sarebbe scaduto l’ultimatum dei terroristi, che avevano promesso di far esplodere il terminal con gli ostaggi al suo interno se le loro richieste non fossero state accolte.

Il primo aereo atterrò sulla pista di Entebbe alle 23, senza farsi notare dai militari ugandesi. Dal portellone posteriore già aperto scesero una Mercedes simile a quella di Amin e due fuoristrada dello stesso tipo di quelli usati dalle sue guardie del corpo. A bordo c’erano 29 soldati delle forze speciali israeliane, guidati da Netanyahu, che avevano il compito di liberare gli ostaggi. Gli altri tre aerei sarebbero atterrati nel giro di pochi minuti e avrebbero sbarcato altri 150 militari incaricati di proteggere l’aeroporto dal contrattacco ugandese. Decine di libri sono stati scritti su cosa avvenne in quei minuti, ma secondo le ultime ricostruzioni – come quella dello storico britannico Saul David, “Operation Thunderbolt“, pubblicata nel 2015 – Netanyahu, il capo del commando, fece un errore: ordinò che il convoglio si fermasse per eliminare due sentinelle ugandesi. I terroristi sentirono gli spari e avrebbero avuto tutto il tempo di uccidere gli ostaggi, ma – a causa della sorpresa o per scrupoli nello sparare su persone disarmate – attesero qualche minuto: un tempo sufficiente al commando per raggiungere il vecchio terminal e iniziare l’assalto. I militari israeliani entrarono nell’edificio gridando in inglese ed ebraico “State a terra, siamo l’esercito israeliano!”. Nella sparatoria sette dirottatori vennero uccisi, alcuni dalle granate lanciate dai commando nella stanza dove si erano rifugiati. Due ostaggi furono uccisi e altri dieci rimasero feriti nel fuoco incrociato. Secondo la ricostruzione più diffusa, entrambi gli ostaggi furono uccisi dai militari israeliani che li avevano scambiati per dirottatori perché si trovavano in piedi al momento dell’irruzione.

Nel frattempo lo scontro era iniziato anche fuori dal terminal. Gli altre tre aerei da trasporto avevano portato il resto del contingente, tra cui diversi mezzi blindati. Un gruppo si diresse verso la zona militare dell’aeroporto, dove si trovavano una decina di aerei da combattimento di fabbricazione russa che vennero fatti saltare in aria. Gli altri formarono un perimetro intorno agli aerei in fase di rifornimento e tennero a bada i militari ugandesi e i primi rinforzi che stavano cominciando ad arrivare sul posto. Tra i 20 e i 40 soldati ugandesi furono uccisi nello scontro, alcuni dei quali mentre si trovavano in cima alla torre di controllo. Uno di loro riuscì a colpire Netanyahu mentre usciva dal terminal. Dopo 53 minuti l’assalto era terminato e l’ultimo aereo lasciò la pista dell’aeroporto.

Il raid ebbe grosse conseguenze. Amin ordinò l’uccisione dell’unico ostaggio che non si trovava all’interno del terminal durante l’attacco e fece uccidere decine di cittadini kenyoti in rappresaglia all’appoggio che il loro governo aveva dato al raid. L’FLP fece esplodere alcune bombe vicino agli hotel in Kenya di proprietà di un cittadino israeliano che aveva facilitato l’accordo tra i due governi, mentre si ritiene che i servizi segreti ugandesi uccisero il ministro kenyota che aveva collaborato con lui. Il raid ebbe anche conseguenze sui rapporti tra Kenya e Uganda, il cui peggioramento delle relazioni portò a una guerra che a sua volta causò la fine del regime di Amin. Il giornalista Max Hastings, autore di “Yoni, hero of Entebbe“, ha scritto che il raid di Entebbe è stato il punto più alto raggiunto da Israele sulla scena mondiale, quando riuscì a dimostrare che il suo esercito era in grado di proteggere i cittadini israeliani in ogni angolo del mondo. Oggi che quel momento è lontano, ha scritto Ben Shepard nella sua recensione al libro di David sul Guardian, altre conseguenze durature di quell’operazione sono diventate chiare: il fatto che da allora il governo israeliano abbia contato sempre più sulla forza militare piuttosto che sul compromesso, per esempio. Ma anche il fatto che la morte di Jonathan Netanyahu a Entebbe lanciò la carriera politica di suo fratello Benjamin, attuale primo ministro e da vent’anni il personaggio più importante e influente della politica israeliana.