Quelli con i microchip sottopelle

Non è una cosa da complottisti: esistono, funzionano e hanno prospettive molto interessanti

(RHONA WISE/AFP/Getty Images)
(RHONA WISE/AFP/Getty Images)

A sentir parlare di “microchip sottopelle” si pensa subito a bufale e teorie del complotto. Quella secondo cui Obamacare era un grande piano malvagio per spiare e plagiare le persone, o quella resa famosa tre anni fa da Paolo Bernini, deputato del Movimento 5 Stelle, che disse: «Non so se lo sapete ma in America hanno già iniziato a mettere i microchip all’interno delle persone, è un controllo di tutta la popolazione». In realtà bisogna fare una distinzione: le teorie del complotto riguardano quello che si fa con quei microchip, non la loro esistenza. I microchip sottopelle esistono – e funzionano, da anni – e hanno anche delle interessanti prospettive commerciali.

Il primo a riuscire a mettersi un microchip sottopelle fu lo scienziato britannico Kevin Warwick, che nel 1998 si sottopose a un’operazione chirurgica di una ventina di minuti e ne uscì con in corpo un transponder RFID (Radio-Frequency IDentification) che gli permetteva di aprire automaticamente porte e accendere luci: gli bastava muovere la mano dentro cui c’era il microchip. Una sorta di Telepass umano. Di recente Warwick ha scritto un articolo per The Conversation in cui spiega che «negli ultimi anni è venuta fuori una nuova comunità di biohacker, che ha sperimentato i modi in cui il corpo umano può diventare più efficace grazie alla tecnologia». I biohacker sono persone che si comportano come hacker – esperti di tecnologia e informatica che collaborano tra loro e spesso lavorano ai limiti di ciò che è legale – ma lo fanno nei campi in cui si incontrano tecnologia e biologia.

Warwick scrive che la tecnologia RFID continua a essere una delle più diffuse, ma da qualche anno sono arrivati anche i microchip che sfruttano tecnologia NFC (Near Field Communication): è quella che, per esempio, già permette di usare smartphone e carte di credito per fare pagamenti veloci senza bisogno di inserire il codice. Nel caso dei microchip sottopelle questa tecnologia sta «in un piccolo tubo grande quanto un chicco di riso». Warwick spiega che il suo microchip, quello del 1998, era un po’ più lungo di due centimetri.

La tecnologia NFC è quella scelta anche da Tim Shank, il presidente di TwinCities+, un’associazione interessata alle future prospettive tecnologiche del settore. Shank ha un microchip sottocutaneo che fa sì che la sua porta di casa si chiuda quando lui esce; anche sua moglie ne ha uno uguale. Parlandone a Fast Company ha spiegato: «Devi fare tutti quei check mentali delle cose che devi prendere quando esci di casa: le chiavi, il portafoglio, tutte quelle altre cose. Quando inizi a non doverci più pensare, la tua mente libera improvvisamente spazio, perché non deve più stare lì a preoccupasene sempre». Shank ha detto che sta anche pensando a un microchip sottopelle che misuri in ogni momento la sua temperatura corporea.

Warwick scrive che oggi i microchip sottopelle sono facili da impiantare e ci sono pochissimi problemi di rigetto da parte del corpo (si impiantano dentro capsule di vetro). Fast Company ha scritto che «secondo molti biohacker, impiantarsi un microchip sottopelle non è più pericoloso di farsi un tatuaggio o un piercing». Bisogna però capire se si tratta solo di una cosa stramba da malati di tecnologia o una cosa che può davvero migliorare le vite delle persone. Warwick scrive che nel 2015 una società svedese ha messo dei microchip a centinaia di dipendenti per permettere loro di aprire automaticamente le porte e «accendere la fotocopiatrice».

Ci sono però anche implicazioni più serie: il biohacker statunitense Tim Cannon per esempio ha un microchip con un LED che si accende se passa vicino a un magnete; Lepht Anonym ha in mente di mettersi nel ginocchio un microchip che funzioni da bussola, l’artista Moon Ribas si è fatta mettere nel gomito un sensore che vibra ogni volta che c’è un terremoto (ovunque nel mondo). C’è poi Neil Harbissonche non vede i colori ma grazie a un microchip collegato al suo cervello e a una telecamera riesce a capire che colori sta guardando e a “vedere” i suoni. Warwick scrive però che l’esempio più avanzato dell’uso di microchip sottopelle ha a che fare con il neurohacking, che si occupa di «modificare il cervello o il sistema nervoso»: di recente questa tecnologia è stata usata per permettere a un uomo paralizzato di recuperare un parziale controllo del suo braccio. Warwick è ottimista e scrive che le prospettive sono tante e convincenti, ma che al momento si tratta sopratutto di una «grande indagine per vedere fino a quanto possono spingersi i confini di ciò che si può fare».