Agli ignoranti si parla

Non gli si nega il voto, dice Giorgio Gori: che spiega perché ha condiviso un articolo del Post sul suffragio universale e risponde alle critiche

di Giorgio Gori

(ANSA/PAOLO MAGNI)
(ANSA/PAOLO MAGNI)

Subito dopo i risultati del referendum britannico sull’uscita dall’Unione Europea, Giorgio Gori, dal 2014 sindaco di Bergamo, ha condiviso su Twitter un articolo pubblicato dal Post lo scorso maggio: l’articolo, intitolato “Devono votare anche gli ignoranti?”, era una riflessione di David Harsanyi, condirettore della rivista online The Federalist, e proponeva una sorta di esame di cittadinanza agli elettori per rendere più informata la scelta conseguente al voto. L’articolo è tornato a essere molto letto e condiviso negli scorsi giorni, dopo il referendum su Brexit: ma anche discusso e contestato. Gori ha risposto alle critiche al suo tweet spiegando il senso della sua “provocazione”, come l’ha definita.

140 caratteri non fanno un discorso, ma possono servire per una provocazione. Viste le vivaci reazioni al mio tweet sul voto inglese – “Elettori disinformati producono disastri epocali. Per votare servirebbe l’esame di cittadinanza” – vorrei tornare sul tema, che considero cruciale, con qualche ulteriore spunto di riflessione. Non certo per proporre restrizioni del suffragio universale, come qualcuno ha erroneamente inteso, banalizzando e distorcendo il mio pensiero, ma per evidenziare i rischi drammatici a cui si espone la democrazia quando i cittadini non sono adeguatamente informati.

“Cos’è l’Unione Europea?” Nelle ore immediatamente successive l’esito del referendum che ha sancito la Brexit, è stata questa la domanda che milioni di britannici hanno affidato a Google. Avevano appena votato. Non stupisce così che la vittoria di misura del Leave – decretata da 638 mila persone, lo 0,008 per cento dell’umanità – vittoria che ha messo in moto spostamenti di migliaia di miliardi, con conseguenze sulle vite di miliardi di persone in tutto il pianeta – sia stata determinata dai cittadini inglesi meno istruiti (il 66% di coloro che hanno interrotto gli studi a 16 anni).

Non voglio però parlare solo dell’Inghilterra. Il voto sulla Brexit ci deve spingere ad una riflessione più generale. Secondo gli studi dell’autorevole linguista Tullio De Mauro, meno di un terzo della popolazione italiana avrebbe i livelli di comprensione della scrittura e del calcolo necessari per orientarsi nella vita di una società moderna. Allo stesso modo, la percentuale di italiani in grado di comprendere il funzionamento della politica italiana sarebbe inferiore al 30%. De Mauro parla di “analfabetismo, un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni”. L’ignoranza è il terreno di coltura del populismo. Il populismo semplifica le realtà, elimina la complessità, parla all’emotività e alla pancia dei cittadini. I quali, orfani delle tradizionali agenzie di mediazione – i partiti, i sindacati, la Chiesa – sono sempre più prigionieri di un presente in cui, senza una visione del futuro, finiscono per prevalere gli elementi di diffidenza e di chiusura.

Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia, ne ha scritto nel suo recente “Le mutazioni del signor Rossi”. In cui annota anche il ruolo giocato dalla mutazione dell’agenda mediatica, a partire dalla perdita di rilevanza della carta stampata e del suo ruolo di strutturazione dell’informazione: “Rispetto al passato siamo persone molto più informate. E tuttavia, pur sapendo molto, siamo meno dotati di senso critico, meno consapevoli, meno capaci di discernimento, e tutto ciò ha un notevole impatto sulla formazione delle opinioni (…) Il primo effetto riguarda la netta prevalenza delle percezioni rispetto alla realtà, delle rappresentazioni rispetto ai fatti. Il secondo è il prevalere dell’emotività sulla razionalità”.

Nel 2014 Ipsos ha condotto un’indagine in 14 Paesi ad alto reddito, su un campione di oltre 11.000 individui, per misurare appunto le percezioni su rilevanti aspetti sociali. Ecco qualche esempio riguardante l’Italia: “Quanti sono i musulmani residenti?’, è stato chiesto. Risposta: il 20% della popolazione (sono il 4%). “Quanti sono gli immigrati?”. Risposta: 30% (in realtà 7%). Quanti i disoccupati? Risposta: 49% (in effetti 12%). Quanti dei “Little Englanders” che hanno decretato il divorzio del loro Paese dall’Europa avrebbero risposto con maggiore precisione? 

Come ha osservato Beppe Severgnini, “sono dati allarmanti. Perché la discussione pubblica parte da qui: da una somma di percezioni sbagliate. La politica non si premura di ripetere i dati corretti. Usa la nostra ignoranza, invece.” La verità è che la democrazia disinformata è una delle malattie più gravi della nostra società, capace – ribadisco – di produrre disastri epocali. Il prodotto di un processo storico lento, prudente e tuttavia visionario, durato decenni, come la costruzione dell’Europa, può essere spazzato via in una sola giornata. Di qui la provocazione dell’esame di cittadinanza. Ma il ragionamento andrebbe di nuovo allargato. Non è sufficiente neppure immaginare di tornare ad investire sull’educazione civica dei cittadini-elettori, per quanto sarebbe evidentemente necessario, o sul ruolo formativo del servizio pubblico televisivo, o sulla maggiore responsabilità dei media.

Il punto è il livello di alfabetizzazione complessiva della popolazione, per usare le categorie di De Mauro, in Europa e ancor più in Italia, visto che nelle classifiche OCSE siamo agli ultimi posti. In questo quadro parlare di innovazione – come spesso facciamo – rischia di condurci a parlare sempre e solo alle élite; e spingere sulle eccellenze, come ci proponiamo pure di fare, ha senso solo se nel frattempo lavoriamo per allargare la base di persone che può capire, collaborare, cogliere occasioni. Altrimenti aumentiamo le distanze, e alimentiamo i populismi che vorremmo combattere, fino a pagarne prezzi salatissimi.