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  • Sabato 25 giugno 2016

«Un nuovo muro non aiuterà nessuno»

Storie dalla colonia israeliana di Ari'el, considerata illegale dalla comunità internazionale ma ritenuta da alcuni un modello di integrazione

di Luca Misculin – @lmisculin

(AP Photo/Maya Hitij)
(AP Photo/Maya Hitij)

La parola “insediamento” rende poco l’idea di cosa sia Ari’el, una colonia israeliana fondata nel 1978 nel mezzo della Cisgiordania (o “territori della Giudea e Samaria”, come li chiamano i coloni ebrei che ci abitano). “Insediamento” fa pensare a qualcosa di provvisorio. Ari’el invece ha circa 18mila abitanti sparsi in vari quartieri, con parchi pubblici, campi sportivi, un complesso industriale con 45 fabbriche e soprattutto una delle poche università pubbliche in Israele. Per andare da un capo all’altro di Ari’el a piedi ci si mette quasi un’ora: più o meno lo stesso tempo che ci si mette ad andare alla periferia nord a quella sud di Pisa.

Mideast Israel PalestiniansUna foto aerea di Ari’el scattata nel 2010 (AP Photo/Ariel Schalit)

Ari’el, però, per la comunità internazionale non esiste: o meglio, è un insediamento illegale costruito in quello che l’ONU, l’Unione Europea e la Corte Internazionale di Giustizia considerano territorio palestinese. Ari’el fu inaugurata un anno dopo la storica vittoria del Likud – il principale partito di centrodestra israeliano, a cui appartiene l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu – alle elezioni politiche di Israele del 1977, che fino a quel momento era stato governato esclusivamente da governi di ispirazione socialista. Il Likud si ispira a una particolare corrente del sionismo chiamata “revisionismo”, secondo la quale – semplificando molto – l’obiettivo a lungo termine di Israele dovrebbe essere ottenere la sovranità su tutta Eretz Yisrael, la terra che secondo gli ebrei Dio ha donato loro migliaia di anni fa. Ari’el inoltre fu fondata praticamente in contemporanea con gli accordi di Camp David degli anni Settanta, in cui Israele si impegnò a restituire il Sinai all’Egitto – conquistato durante la Guerra dei sei giorni del 1967 – in cambio della pace: in seguito alla restituzione del Sinai, Israele restrinse di molto il proprio territorio e di conseguenza si sentì legittimato a espandersi in altri territori che il governo di allora considerava “di sua proprietà” e che fra l’altro controllava già militarmente, sempre come conseguenza della Guerra dei sei giorni.

Le colonie israeliane, in cui secondo recenti stime vivono oggi circa 550mila persone, sono considerate dalla comunità internazionale, da diverse importanti ONG e dalla sinistra israeliana come il principale ostacolo alle prospettive di raggiungere un accordo di pace in tempi brevi fra israeliani e palestinesi: più dell’occupazione militare di Gerusalemme est, più delle quotidiane discriminazioni che secondo varie ONG i palestinesi sono costretti a subire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Concretamente si parla di 550mila persone che da decenni abitano in un posto che la comunità internazionale non considera gli appartenga, che in queste piccole città si sono costruite una vita e non hanno nessuna intenzione di andarsene. Qualcuno ha anche calcolato quanti soldi sottraggono annualmente le colonie all’economia palestinese – 3,6 miliardi di dollari, dice la Banca Mondiale – ma è una stima decisamente a spanne, dato che l’economia palestinese non è sviluppata e dinamica come quella israeliana.

Ad Ari’el diverse persone non si limitano a giustificare la loro presenza con motivazioni politiche: per loro la colonia sta contribuendo al processo di pace e integrazione fra il popolo palestinese e quello israeliano, e le organizzazioni filo-palestinesi dovrebbero prendere spunto da quello che succede in città.

Ari’el
Nonostante Ari’el disti solo 60 chilometri da Gerusalemme, quasi tutti percorribili su una superstrada israeliana, per arrivare in autobus ci si mettono quasi due ore. L’autobus collega infatti diversi insediamenti israeliani della zona, tutti costruiti in cima a delle colline e protetti da checkpoint e barriere di filo spinato. Tutti gli autobus che circolano su questa strada hanno i vetri rinforzati: nei periodi di maggiori tensioni e violenze, come le due Intifade, vengono presi di mira da pietre e proiettili dai vicini villaggi palestinesi. Entrando dal checkpoint all’ingresso di Ari’el, sulla destra c’è il campus universitario, con gli edifici amministrativi, il campus vero e proprio i dormitori. Poi la colonia si sviluppa in lungo: all’estremità opposta, dopo aver attraversato vari quartieri di piccole casette chiare, diversi cantieri e altri edifici che sembrano essere stati inaugurati l’altroieri, c’è il piccolo quartiere amministrativo, con l’ufficio del sindaco – una piccola villetta, simile a un bungalow – e l’altro ente più importante dopo quello sindaco, anch’esso situata dentro un piccolo bungalow: quello dell’Ari’el Development Fund, una società che raccoglie fondi da donatori privati per i progetti urbanistici della città.

20160613_150451 (Luca Misculin/Il Post)

Il direttore dell’Ari’el Development Fund è Avi Zimmerman, che ha 39 anni, è un ebreo ortodosso ed è cresciuto nel New Jersey, negli Stati Uniti. È arrivato in Israele una decina d’anni fa e vive in una piccola casa assieme a sua moglie e quattro figli. Mi accoglie nel suo ufficio simile a quello del sindaco, dove mi spiega in cosa consiste il suo lavoro. Oltre a essere il responsabile dell’Ari’el Development Fund, da qualche anno Zimmerman lavora anche da “portavoce” ufficioso della colonia: parla con i giornalisti e le ONG che vogliono visitare Ari’el, ha un blog sul sito del Times of Israelscrive libri e collabora con l’università di Ari’el.

Zimmerman mi elenca rapidamente i progetti che ha in ballo per Ari’el: la costruzione di un nuovo ospedale (in collaborazione con l’università, che ci aprirà anche una facoltà di medicina), un piccolo museo dell’Olocausto, una palestra e l’ampliamento della zona industriale della colonia, con l’aggiunta di altre 15 fabbriche alle 45 già esistenti. Presto però, quasi subito, Zimmerman mi parla dei molti problemi e della generale “ostilità” – come la definisce – che la colonia si trova ad affrontare per via del suo status.

Zimmerman, in sostanza, trova ingiusto che una colonia come Ari’el debba essere discriminata a prescindere sulla base del suo status di insediamento illegale – che pure Zimmerman contesta, ma ci arriviamo – senza che le si riconosca di collaborare ogni giorno al processo di integrazione fra coloni e palestinesi. Zimmerman spiega per esempio che quasi tutte le fabbriche del complesso industriale impiegano lavoratori palestinesi, con cui i rapporti sono ottimi, e che la qualità della vita dei paesi arabi dei dintorni è migliorata da quando esiste Ari’el. Zimmerman, comprensibilmente, è anche molto critico nei confronti dei movimenti internazionali che invitano al boicottaggio dei prodotti israeliani e più nello specifico di quelli prodotti nelle colonie (il più famoso di tutti è il Boycotts, Divestment and Sanctions movement (BDS), che ha anche una branca italiana). Come per tutte le colonie, BDS invita a boicottare i prodotti di Ari’el, che fra poco nell’Unione Europea verranno anche venduti con un’etichetta speciale per segnalare che sono stati prodotti dentro una colonia illegale. Zimmerman – come molti altri israeliani prima di lui – spiega che il boicottaggio contro le colonie danneggia soprattutto i molti palestinesi che lavorano nelle fabbriche israeliane, che possono permettersi di spostare altrove la produzione e risolvere il problema. A chi gli dice che la questione del boicottaggio è perlopiù simbolica, e serve a costruire un consenso internazionale attorno all’illegalità delle colonie, Zimmerman ribatte: «come fai a spiegare a un palestinese che li stai aiutando “simbolicamente”?».

Un video illustrativo delle attività di BDS, molto impreciso e parecchio filopalestinese

Per spiegarmi il rispetto che la comunità di Ari’el si è guadagnata fra gli abitanti palestinesi della zona, Zimmerman mi fa un esempio un po’ particolare: nel corso dell’ultimo ciclo di violenze, spiega, Ari’el è rimasta stranamente poco coinvolta dagli attacchi dei palestinesi. Negli ultimi sei mesi ci sono stati “solo” tre attacchi: due compiuti da uomini della zona di Betlemme ed Hebron, due città della Cisgiordania, e uno compiuto da un operaio della zona industriale di Ari’el, avvenuto però fuori dalle mura di città, proprio all’interno del complesso industriale. Per Zimmerman, questa è la prova che gli operai palestinesi sono in qualche modo affezionati ad Ari’el, e che persino l’unico attentatore che in qualche modo era legato alla città abbia voluto risparmiare i suoi abitanti (l’obbiettivo del suo attacco sono state due guardie del complesso industriale). Ma Zimmerman ha una posizione molto particolare anche sulle prospettive future della guerra.

La soluzione più popolare fra gli stati e le organizzazioni internazionali che per ultimi si sono spesi per trovare un accordo di pace è quella cosiddetta “a due stati”: a grandi linee, prevede l’esistenza di uno stato ebraico e israeliano nelle comunità a maggioranza israeliana entro un confine deciso dalla comunità internazionale, e uno stato palestinese in quelli previsti dagli accordi di Oslo (cioè sostanzialmente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza). La soluzione a due stati fu avanzata per la prima volta dal piano di partizione proposto dall’ONU nel 1947, accettato dagli israeliani e rifiutato dai palestinesi, che la ritennero la legittimazione di quella che percepirono come un’occupazione dei propri territori. Al momento la soluzione a due stati è appoggiata, fra gli altri, dall’Unione Europea, dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, dall’ONU stessa e dalle principali ONG che operano in Israele e Palestina. Dall’altra parte la soluzione a due stati è osteggiata dalla destra israeliana nazionalista o religiosa, cioè quella che crede che Israele abbia diritto a governare tutto il territorio palestinese rispettivamente per ragioni politiche o etnico-religiose, e da moltissimi palestinesi che contestano in toto l’esistenza di Israele.

MIDEAST ISRAEL PALESTINIANSUn colono ebreo ortodosso aspetta di entrare nell’insediamento di Bat Ayin, a sud di Gerusalemme (AP Photo / Sebastian Scheiner)

Zimmerman dice che non ha idea di cosa succederà da qui a qualche anno o qualche decennio, ma dice che ormai è chiaro che la soluzione a due stati «non esiste», dato che viene riproposta da decenni senza che sia mai stata davvero applicata. E nel caso venissero creati due stati separati, uno israeliano e uno palestinese, le tensioni sarebbero tali che nessuno dei due stati vivrebbe davvero in pace, e sarebbe necessario costruire un nuovo muro (come quello che già separa i territori occupati da Israele a Gerusalemme est ai quartieri arabi). «Un nuovo muro non aiuterà nessuno», dice Zimmerman, che paragona la sua eventuale costruzione alla proposta di Donald Trump di costruire un muro fra Stati Uniti e Messico, spiegando che in entrambi i casi si tratterebbe di una decisione antidemocratica. Per lui, anche se non lo dice esplicitamente, la soluzione è un unico stato “binazionale”, cioè abitato sia dagli israeliani e i palestinesi insieme. Il problema non sono i palestinesi in sé, dice Zimmerman, ma la loro classe dirigente interessata solo alla propria conservazione – una critica condivisa anche da diversi osservatori internazionali – e i gruppi terroristi come Hamas, disinteressati al processo di pace. «Abbiamo visto che costruire opportunità per tutti è un metodo che funziona», spiega Zimmerman, aggiungendo che «ogni relazione che oggi costruiamo coi palestinesi sarà utile» per contrastare il terrorismo. «Tutti vogliamo vivere una vita normale», continua Zimmerman: «perché non possiamo vivere da vicini?».

Nella sua posizione, i critici di Zimmerman vedono un po’ di paternalismo: nei suoi piani l’autodeterminazione dei palestinesi ha un ruolo marginale – Zimmerman è convinto che quelli che vivono in Israele non vogliano uno stato palestinese, cosa opinabile – e soprattutto l’identità ebraica dello stato di Israele non è in discussione. I palestinesi dovrebbero cioè adattarsi e vivere in uno stato che li ha discriminati per anni, che da decenni occupa un territorio che la comunità internazionale ha assegnato a loro, e che ha un duplice atteggiamento riguardo il terrorismo: spesso solidale o poco rigido nei confronti di quello ebraico (i cui responsabili sono giudicati secondo la legge civile israeliana) e invece eccessivamente duro – come sottolineano da anni le principali ONG – contro quello palestinese, i cui sospettati vengono giudicati dalla legge militare, molto più rigida di quella civile.

Alla domanda su cosa dovrebbe fare una famiglia di palestinesi che non desiderasse vivere in uno stato ebraico, Zimmerman risponde semplicemente che potrebbero emigrare altrove, in uno dei molti stati arabi confinanti con Israele. È una risposta ingenua che ricorda quella che si diedero molti dei primi sionisti, secondo cui gli israeliani erano più legittimati dei palestinesi ad abitare la Palestina perché gli ebrei – al contrario degli arabi – non avevano nessun altro posto dove andare. Per quanto riguarda il diritto di costruire una colonia in terra palestinese, Zimmerman cita un’oscura legge approvata nell’Ottocento dall’Impero ottomano, che in pratica permette di appropriarsi di una terra se è stata abbandonata o non è stata coltivata dai suoi legittimi proprietari per un certo periodo di tempo, e contesta il fatto che i palestinesi siano sempre stati i soli abitanti di questa terra. Sono affermazioni opinabili: un lungo rapporto di Human Rights Watch sugli insediamenti israeliani contiene fra le altre cose le testimonianze di diversi abitanti di villaggi palestinesi nei dintorni di Ari’el, che sostengono che dagli anni Ottanta a oggi il governo israeliano abbia sottratto terre di loro proprietà senza chiedere il consenso, spesso per ragioni di sicurezza.

L’università di Ari’el
Per quanto fragile e controversa, la posizione di Zimmerman è molto più aperta di quella di altri coloni, e i giornali in passato hanno scritto che la tranquillità di Ari’el è un caso eccezionale. Altrove gli scontri fra coloni e palestinesi sono frequenti e i contatti fra le due comunità molto radi (e a volte caratterizzati dal solo sfruttamento da parte dei datori di lavoro israeliani, che per ridurre i costi impiegano lavoratori palestinesi anche minorenni senza un regolare contratto). Ad Ari’el la relazione fra coloni israeliani e palestinesi – oltre che dalla zona industriale – è favorita dall’università locale, frequentata da una popolazione studentesca “normale”: fra i 15mila studenti iscritti quest’anno, circa il 60 per cento non si identificano in nessuna religione, mentre ebrei, musulmani e cristiani si spartiscono il resto del corpo studentesco.

L’università di Ari’el si trova sulla destra appena usciti dal checkpoint di ingresso della colonia. Gli edifici amministrativi si trovano in alto rispetto alla strada principale, il campus vero e proprio con gli uffici delle facoltà e le aule al di sotto del livello della strada. Girando per il campus in una giornata di inizio giugno, durante la sessione di esami, non si noterebbe nulla di strano: ci sono gruppi di ragazzi che ripassano sulle panchine, altri che scherzano ai tavolini in legno di un chiosco, e i custodi che puliscono pigramente i sentieri accanto alle aiuole (fa già molto caldo). Due ragazze con l’hijab passano accanto a un ragazzo con uno zaino da montagna, ridendo fra loro.

20160613_144102 Il campus “inferiore” dell’università di Ari’el (Luca Misculin/Il Post)

Nicole Greenspan è la responsabile delle relazioni internazionali dell’università. Mi accoglie al quarto piano di un palazzo con le pareti in vetro nella zona amministrativa. Greenspan ha passato da poco i trent’anni, è cresciuta in Canada e abita a Tel Aviv, dove rientra ogni giorno dopo 45 minuti di autobus. Greenspan lavora qui solamente da un anno e mezzo. Una delle prime cose che mi dice è che non avrebbe mai pensato di lavorare per un posto del genere: si considera molto di sinistra – vota per Meretz, il più radicale fra i partiti tradizionali di sinistra – e racconta che in un primo momento aveva accettato questo incarico solo perché aveva bisogno di un lavoro, ma che dopo qualche tempo si è convinta a rimanere.

Greenspan mi racconta con un certo orgoglio che l’università sta cercando di diventare un modello di integrazione positiva per altre università israeliane: accetta studenti di ogni nazionalità e religione, si fa pubblicità nei vicini paesi arabi e ha un ufficio che si occupa dell’inserimento degli studenti palestinesi. Anche Greenspan mi fa degli esempi concreti di come a suo dire la presenza della colonia abbia dato agli abitanti dei paesi arabi delle possibilità che prima non avevano – l’ospedale che aprirà in collaborazione con l’università, per esempio, sarà aperto sia agli israeliani sia ai palestinesi, a differenza di molti ospedali israeliani – e mi racconta che di recente è nato un gruppo di dibattito aperto a tutti che si riunisce ogni settimana per discutere dei “Grandi Temi”: la pace, l’andamento dei giornali, il peso della religione, e così via. Greenspan mi dice comunque che nel campus non ci sono mai stati grossi problemi di convivenza, a parte quelli che accadono in tutte le università al mondo: «La politica resta fuori dall’ingresso di sicurezza», spiega, ricordando – forse senza volerlo – che nonostante tutto non ci troviamo in una “normale” università.

Una delle ragazze che partecipa al gruppo di dibattito è Amal, che ha 23 anni, studia ingegneria industriale ed è una musulmana praticante (anche se non porta il velo). La incontro sulla terrazza di uno degli edifici amministrativi dell’università, da cui si può vedere tutta la colonia e qualche villaggio arabo in lontananza, ai piedi della collina.

Amal è cresciuta in una famiglia araba a Kfar Qari’a, una città araba conquistata da Israele nella Guerra d’indipendenza del 1948 e rimasta saldamente dentro i suoi confini in tutte le trattative successive. Amal, che è abituata a parlare coi giornalisti e ai gruppi di studenti interessati a frequentare l’università, racconta che ad Ari’el si trova molto bene – anche se non c’è molto da fare la sera, dice un po’ seccata – e che gli episodi sgradevoli da quanto è venuta qui per studiare sono stati pochi. Una volta, racconta, un colono l’ha sentita parlare in arabo assieme ad altri suoi compagni sul bus che porta ad Ari’el, e ha sussurrato qualcosa al soldato che stava di guardia al checkpoint. Amal lo racconta con un sorriso un po’ amaro, spiegando che quell’uomo «probabilmente si è sentito l’eroe del giorno». Un’altra volta, durante una seduta del gruppo di dibattito in cui si parlava delle proposte di pace, uno studente ha proposto di cacciare tutti gli arabi da Israele. Amal racconta che dopo aver ascoltato questa proposta si è semplicemente messa a ridere: «cos’altro si può fare?», mi dice in un tono un po’ sconsolato. Nel complesso racconta che la convivenza nel campus è molto tranquilla, anche nei dormitori: alcuni party sono riservati solo ai ragazzi ebrei, ma in realtà nessuno viene cacciato via e lei non si è mai sentita discriminata in questo senso.

Greenspan, che è sempre rimasta presente durante la chiacchierata con Amal, dice che in questi mesi si è pienamente convinta della bontà del suo lavoro, e che rispetto ai primi tempi ha intenzione di rimanere qui a lungo: sostanzialmente, racconta, perché «forse esiste un modo per far funzionare le cose, una speranza: ed è visibile qui», negli studenti che mangiano e studiano e crescono assieme.

20160613_115431(Luca Misculin/Il Post)