Si dice “sindaco” o “sindaca”?

Le vittorie di Appendino e Raggi hanno riaperto la questione linguistica, Repubblica e Corriere si sono schierati (più o meno)

Virginia Raggi e Chiara Appendino, nuove sindache di Roma e Torino (ANSA)
Virginia Raggi e Chiara Appendino, nuove sindache di Roma e Torino (ANSA)

Dopo i risultati dei ballottaggi delle elezioni amministrative di domenica 19 giugno, si è parlato molto dei risultati che ha ottenuto il M5S con Virginia Raggi a Roma e con Chiara Appendino a Torino, anche perché li hanno ottenuti due donne. Nonostante ci siano da anni tante donne che guidano consigli comunali o che hanno ruoli importanti nelle istituzioni, le vittorie di Appendino e Raggi hanno riaperto una nota questione linguistica: si dice “sindaco” o “sindaca”?

Al Post c’è una certa laicità ed elasticità, anche se al peraltro direttore non piace la “femminilizzazione forzata e cacofonica di termini maschili”, e quindi per adesso usiamo “sindaco”. Oggi su Twitter il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, ha pubblicato l’immagine del sommario di un articolo uscito oggi su Repubblica scrivendo:

Dentro l’articolo la parola “sindaco” è declinata al maschile, a testimonianza di una certa abitudine ancora radicata. Inoltre in molti casi sono le stesse candidate a definirsi “sindaco”, secondo un’altra idea piuttosto condivisa per cui le parole non sono importanti e che è naturale per certe professioni o ruoli continuare ad usare la forma maschile. Anche il Corriere della Sera si è occupato oggi della questione con un articolo intitolato “E adesso chiamiamola sindaca”, che dice tra le altre cose:

E adesso evitiamo i pasticci. Tipo: il sindaco torinese Virginia Raggi o, peggio, la sindaco Appendino. Evitiamo i pasticci, le formule scombinate e gli orrori grammaticali. La sindaca esiste e va chiamata sindaca.

Molte femministe su Twitter hanno fatto notare comunque che cambiare un’abitudine linguistica non è una grande fatica.

https://twitter.com/antofix/status/744827649013481472

Una regola sul genere grammaticale femminile di ruoli istituzionali e professioni è stata comunque stabilita. Nel 2013 l’Accademia della Crusca con un comunicato ha ribadito quanto già scritto nel 2011 nella Guida agli atti amministrativi fatta in collaborazione con il CNR: è corretto usare le parole chirurga, avvocata, architetta, magistrata, ministra, sindaca e così via. Come precisa l’Accademia, è quello che è già accaduto per molti altri mestieri e professioni consolidate: infermiera, maestra, operaia, modella, cuoca, segretaria. Sono termini che non suscitano alcuna obiezione non perché siano formalmente “corretti”, mentre invece sindaca o architetta siano “sbagliati”, ma semplicemente perché siamo abituati all’uso dei primi e non dei secondi. Molte femministe spiegano poi che le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano fondate su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono di un altro genere (basti pensare alla parola “segretaria”, che con molta facilità è stata declinata al femminile ma che con difficoltà viene associata al ruolo a cui invece si pensa quando si pronuncia la parola “segretario”). Sempre la Crusca:

«Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo».