La versione di Orfini su Roma

«I romani in periferia non ci criticavano per aver dimesso Ignazio Marino, ma per averlo eletto», dice tra le altre cose il presidente del PD e commissario del partito a Roma

(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
(ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Matteo Orfini, presidente del Partito Democratico e dal dicembre 2014 commissario straordinario del PD di Roma, nominato dopo lo scandalo conosciuto come “Mafia Capitale”, ha scritto un post su Facebook nel quale spiega quali sono secondo lui le ragioni della larga sconfitta alle elezioni comunali di Roma, vinte dalla candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi. Orfini fa autocritica sulle responsabilità del PD, criticando le scelte fatte dal partito a Roma negli ultimi anni, orientate soprattutto alla gestione dei conflitti interni e del potere invece che alla costruzione di un consenso tra le persone che vivono a Roma, e soprattutto tra quelle che vivono in periferia.

Orfini fa risalire i problemi agli anni in cui il PD era all’opposizione, durante la giunta dell’ex sindaco di destra Gianni Alemanno, quando, dice, «avevamo smesso di pensare alla città e ci eravamo chiusi al nostro interno. Non contava il consenso esterno, ma la ripartizione di quello interno». Una delle colpe principali del PD, continua Orfini, è stata non accorgersi dei fatti emersi con l’inchiesta Mafia Capitale, e di aver scelto Ignazio Marino come candidato sindaco nel 2013 (questo è un tema molto controverso nel partito: molti credono invece che il problema sia stato la rimozione di Marino). Orfini dice di aver provato ad occuparsi di questi e altri problemi durante il suo periodo da commissario ma ammette di non esserci riuscito, perché era «impossibile». Alla fine delle sue considerazioni, Orfini ha ringraziato Roberto Giachetti, candidato sindaco del PD alle ultime elezioni amministrative, scrivendo che la sconfitta non è «solo sua», come ha detto Giachetti, ma di tutto il partito.

Dopo un risultato come quello di Roma credo che solo una cosa non si possa fare: discutere per finta. Abbiamo il dovere della sincerità. Che significa riconoscere gli errori, ma anche ricostruire i fatti con precisione per evitare di sbagliare ancora. E vale per tutti, prima di tutto per me. Provo a dare il contributo iniziale.

Io la vedo così: 18 mesi fa sono diventato commissario di Roma. Non per un capriccio di Renzi. Ma perché la città era travolta dallo tsunami Mafia Capitale. Inutile qui ricordare nomi e cognomi di quelli che furono coinvolti tra i nostri compagni di partito. Non derubricammo la questione sotto la categorie delle “responsabilità individuali”, perché sarebbe stato un falso.

Chiunque abbia un briciolo di onestà intellettuale sa che il nostro partito a Roma aveva una enorme responsabilità politica, ovvero quella di non essersi accorto di quanto stava accadendo nella città. Perché troppo preso da una guerriglia interna continua. E perché dopo la sconfitta di Rutelli non aveva saputo negli anni dell’opposizione ad Alemanno ricostruire un progetto per la città, abbandonandosi spesso a una logica consociativa che ha finito per farci molto ma molto male. Avevamo smesso di pensare alla città e ci eravamo chiusi al nostro interno. Non contava il consenso esterno, ma la ripartizione di quello interno. E per vincere quella sfida tutto era lecito: imbarcare ceto politico di destra, infeudare i circoli, truccare i congressi. Accumulare debiti che “tanto non si pagano mai”.

Dopo la sconfitta pensammo di ripartire non dalla città, ma dai nostri equilibri. Tessere e preferenze. Sui limiti di quella stagione ha scritto pagine molto precise Goffredo Bettini nel suo ultimo libro.

Il Pd di Roma quando sono diventato commissario questo era. E il mio lavoro aveva l’obiettivo dichiarato di cambiarlo. Per questo il rapporto Barca (con i suoi pregi e le sue imprecisioni), per questo le chiusure dei finti circoli, la riorganizzazione, per questo le liste pulite e aperte, per questo il piano di rientro dei debiti.

Ma non abbiamo dovuto affrontare solo la rigenerazione interna. C’era –e c’è ancora, enorme- un problema di rapporto con i romani. Oggi molti scoprono che non prendiamo voti nelle periferie. Lo segnalo dal primo giorno, da quando abbiamo cominciato andando al Laurentino 38. E’ almeno un decennio che va così. Le ragioni sono diverse. In parte figlie di una fatica generale del nostro partito nelle aree periferiche delle grandi città, dovuta anche alla crisi che ha morso di più in quei luoghi. Un po’ dallo specifico romano, dalla storia di quei quartieri, dal modo in cui sono stati progettati, costruiti e subito abbandonati. Su questo ha scritto cose importanti (e severamente autocritiche) Water Tocci nel suo ultimo libro. In quelle periferie o non c’eravamo o avevamo affidato a un notabilato piuttosto degenerato il rapporto coi cittadini. E questo evidentemente non ha aiutato. Roma si è strappata perché noi non abbiamo saputo ripensarla. Il nostro partito è pieno di gente che parla di perfierie pensando che siano Garbatella. Me lo sono sentito dire persino da qualche assessore, in questi mesi.

Ecco, qui sta anche il limite più forte dell’esperienza Marino: aver pensato che Roma finisse con le Mura Aureliane. Chiunque abbia girato la città in questa campagna elettorale sa che i romani in periferia non ci criticavano per aver dimesso Ignazio Marino, ma per averlo eletto. E d’altra parte la scelta della sua candidatura fu la soluzione emergenziale (e in quanto tale inevitabilmente inadeguata) inventata per mettere una toppa al vuoto di prospettiva politica lasciato dalla gestione scellerata dei 5 anni di opposizione ad Alemanno. Ho provato a salvare quella esperienza fino in fondo (e per questo sono stato assai criticato) proprio perché consapevole che sommare a mafia capitale la certificazione di un fallimento amministrativo avrebbe reso difficilissima la sfida. Ma è stato impossibile farlo.

Recuperare il distacco che si è creato con una parte così larga della città non è un lavoro semplice. Serve consapevolezza, che in molti è mancata. Serve umiltà. Serve tempo. E serve un partito che sia strumento di questa battaglia. Prima delle elezioni ho ricordato a tutti che entro ottobre avremmo dovuto convocare il congresso, perché questo prevedono le nostre regole. E questo accadrà. Quella sarà la sede in cui faremo le scelte, ma è ovvio che abbiamo bisogno di discutere, da subito. Come dicevo all’inizio di questo post –e come giustamente auspica Roberto Morassut oggi- facciamolo però seriamente e senza ipocrisie. In questa campagna elettorale si è cominciato a vedere un partito nuovo, aperto a esperienze civiche, che ha saputo rimettersi in gioco e in discussione. Tanti candidati ci hanno provato con freschezza e passione, magari accettando di misurarsi per la prima volta proprio nel momento più difficile. Alcuni ce l’hanno fatta, altri no. Ma non dobbiamo disperdere il loro entusiasmo.

Guai a fare l’errore del dopo dopo Rutelli, guai a chiuderci e a ripartire ancora una volta da tessere e preferenze. Perché questo vorrebbe dire riproporre il logoro schema della ricerca di un equilibrio interno per auto tutelarci, quando invece a noi serve riconnetterci con la città.
Voglio essere esplicito: il problema oggi a Roma non è tornare a prima del commissariamento, ora che il commissariamento sta per terminare.

Prima del commissariamento c’era il Pd di mafia capitale. Che è la ragione di fondo per cui siamo oggi a commentare una sconfitta. C’era un partito respingente, c’era un’amministrazione inadeguata, c’erano assessori che infrangevano le regole, più o meno consapevolmente. C’era il rapporto incestuoso con le municipalizzate, con gli interessi organizzati. Cose che in questi mesi abbiamo provato a spazzare via, pagando a volte un prezzo alto. Se qualcuno vuole tornare a quel modello di partito, lo dica chiaramente. Ma sappia che quel passato non tornerò mai. Perché oggi siamo debilitati e convalescenti. Prima eravamo nel pieno della malattia.

Io credo che il nostro obiettivo debba essere opposto: cogliere con grande umiltà il segnale vero che viene dalla città. Ascoltare, confrontarsi. Per aprirsi sempre di più e trovare fuori le energie necessarie a rigenerarci. Mostrando di saper imparare dai nostri errori.
La scelta di fondo è esattamente questa: ne parliamo tra di noi o proviamo a coinvolgere i romani in questa discussione? Io non ho dubbi su quale sia la strada giusta, anche se più difficile e faticosa.

Infine ci tengo a ringraziare Roberto Giachetti. Ieri ha detto che la sconfitta è solo sua. Non è vero. Insieme abbiamo combattuto, abbiamo raggiunto un ballottaggio non scontato. E abbiamo perso, di tanto. Ma l’abbiamo giocata fino all’ultimo minuto. Lui ci ha messo cuore, passione e impegno. E ci ha aiutato in questa battaglia difficilissima. E per questo gli dobbiamo solo dire grazie. E con lui ai candidati presidenti di municipio. A quelli che come Sabrina Alfonsi e Francesca Del Bello ce l’hanno fatta. E agli altri che con coraggio ci hanno provato. E ai nostri militanti che in condizioni complicatissime hanno fatto una campagna elettorale bellissima senza mai risparmiarsi.
Virginia Raggi è il sindaco di Roma. Ha avuto un grande risultato e gliene diamo atto. Le faremo una opposizione dura e costruttiva, ma senza sconti.