La storia del “Miranda warning”

Ovvero la famosa frase «Ha il diritto di rimanere in silenzio. Tutto quello che dirà potrà essere usato contro di lei in tribunale»

La foto segnaletica di Ernesto Miranda. 
(AP Photo/Matt York)
La foto segnaletica di Ernesto Miranda. (AP Photo/Matt York)

Il 13 giugno 1966 la Corte Suprema degli Stati Uniti si espresse sul caso Miranda v. Arizona, una causa tra lo stato dell’Arizona e Ernesto Arturo Miranda, un 25enne americano di origini messicane che era stato arrestato e condannato tre anni prima per lo stupro e il rapimento di una ragazza di 17 anni. La Corte Suprema stabilì che i diritti di Miranda sanciti dal Quinto e dal Sesto Emendamento della Costituzione americana erano stati violati durante il suo arresto e il suo interrogatorio, perché non era stato informato del suo diritto di avvalersi di un avvocato e di rimanere in silenzio. La sentenza della Corte Suprema diede origine a quello che ancora oggi è conosciuto come “Miranda warning”, cioè quella formula che gli agenti di polizia americani devono recitare ai sospettati al momento dell’arresto, per informarli dei loro diritti: «Ha il diritto di rimanere in silenzio. Tutto quello che dirà potrà essere usato e sarà usato contro di lei in tribunale».

In Italia conosciamo il “Miranda warning” soprattutto per i film polizieschi, nei quali è spesso citato. Nella realtà, tuttavia, i poliziotti sono tenuti a leggerlo solo alle persone che verranno poi interrogate, e non a tutti gli arrestati: a chi viene arrestato per guida in stato di ebbrezza, ad esempio, non viene recitato il “Miranda warning”. Il testo non è uguale in tutti gli stati americani, perché la Corte Suprema non stabilì una versione unica, ma solo delle indicazioni sulle informazioni da dare alle persone arrestate sui loro diritti, che vennero poi elaborate da ogni stato. Nella sua versione più comune, il testo del “Miranda warning” dice:

Ha il diritto di rimanere in silenzio. Tutto quello che dirà potrà essere usato e sarà usato contro di lei in tribunale. Ha il diritto a un avvocato. Se non se ne può permettere uno, gliene sarà assegnato uno d’ufficio. Ha capito i diritti che le ho appena letto? Tenendo presente questi diritti, vuole parlare con me?

La storia del caso Miranda
Ernesto Arturo Miranda era nato nel 1941 a Mesa, in Arizona. Suo padre era messicano, ed era emigrato negli Stati Uniti prima della nascita del figlio. Miranda ebbe un’adolescenza difficile, e negli anni Cinquanta venne arrestato molte volte, per furto d’auto, vagabondaggio e molestie sessuali. Il 13 marzo 1963 a Phoenix, in Arizona, una ragazza di 18 anni di nome Lois Ann Jameson fu aggredita mentre tornava a casa dopo il suo lavoro serale. Jameson fu costretta a salire sulla sua auto da un uomo che la minacciò con un coltello, fu portata nel deserto, violentata, derubata e lasciata per strada a qualche isolato da casa sua. Una settimana dopo, il fratello di Jameson disse alla polizia che la sorella aveva riconosciuto per caso il furgone dell’aggressore, vedendolo passare per strada: due agenti di polizia, Carroll Cooley e Wilfred Young, attraverso la descrizione del furgone identificarono Miranda, lo arrestarono e lo portarono alla centrale di polizia per interrogarlo.

Miranda fu sottoposto insieme ad altri tre sospettati – tutti messicani – al riconoscimento visivo da parte della vittima. Jameson disse che Miranda era quello che si avvicinava di più al suo aggressore, ma non ne era sicura. Gli agenti di polizia dissero però a Miranda che era stato identificato da Jameson, e dopo due ore di interrogatorio ottennero una sua confessione, nella quale si assunse la responsabilità anche su altri crimini commessi nella zona. Miranda aveva un passato di instabilità mentale e si fece interrogare senza avvocato, perché non era stato informato del suo diritto ad averne uno. In tribunale, poi, disse anche che gli agenti Cooley e Young lo avevano minacciato, e che gli avevano promesso di lasciar cadere le accuse di stupro se avesse confessato le altre rapine. Cooley e Young in seguito negarono queste accuse, e dissero che sapevano che Miranda aveva il diritto di rimanere in silenzio durante l’interrogatorio, ma che non lo avvertirono perché non erano per legge tenuti a farlo.

Dopo il primo interrogatorio Miranda fu portato da Jameson per un riconoscimento della voce: gli chiesero se fosse lei la vittima, e lui disse “È quella la ragazza”. Jameson riconobbe la sua voce come quella dell’uomo che l’aveva violentata. A Miranda fu fatta firmare una confessione che diceva che conosceva i suoi diritti e che non era stato obbligato con la forza a parlare. A Miranda fu assegnato come avvocato d’ufficio il 73enne Alvin Moore, e il processo iniziò nel giugno del 1963. Per l’accusa furono chiamati solo quattro testimoni (Jameson, sua sorella e gli agenti Cooley e Young), e la prova principale fu la confessione di Miranda. Moore mise in discussione la versione di Jameson sulle dinamiche dell’aggressione, e in aula interrogò Cooley facendogli ammettere che non aveva informato Miranda dei suoi diritti prima di interrogarlo. Moore provò a far ritirare la confessione come prova nel processo, ma non ci riuscì e Miranda venne condannato a una pena compresa tra i 20 e i 30 anni di carcere.

L’appello alla Corte Suprema
Moore prima fece appello contro la sentenza alla Corte Suprema dell’Arizona, sostenendo che Miranda non avrebbe confessato se fosse stato interrogato insieme a un avvocato. La Corte Suprema dell’Arizona però decise che la confessione di Miranda era stata ottenuta legalmente. Intanto il caso di Miranda era diventato molto famoso in Arizona, ma Moore non poté più seguirlo per problemi di salute: due famosi avvocati di Phoenix, John J. Flynn e John P. Frank, accettarono di gestire il caso di Miranda gratuitamente per fare appello alla Corte Suprema. La Corte Suprema, all’interno del caso Miranda v. Arizona, prese in considerazione altri quattro casi simili di persone arrestate non informate dei propri diritti, avvenuti negli ultimi anni. Il 13 giugno 1966, con cinque voti a favore e quattro contrari, la Corte si espresse a favore di Miranda, stabilendo che la sua confessione non era stata ottenuta legalmente, e stabilendo le linee guida che i poliziotti avrebbero dovuto seguire per informare gli interrogati dei loro diritti.

La decisione della Corte Suprema annullò la condanna di Miranda, e il suo secondo processo cominciò nel 1967, senza la possibilità per l’accusa di utilizzare la sua confessione. La testimonianza della sua compagna al momento dell’aggressione, Twila Hoffman, si rivelò però decisiva, e Miranda fu condannato di nuovo a una pena compresa tra i 20 e i 30 anni di carcere. Nel 1972 Miranda fu rilasciato con la condizionale, e per mantenersi cominciò a vendere delle cartoline autografate. Negli anni successivi fu di nuovo arrestato per delle infrazioni alla guida e per possesso illegale di armi. Siccome era in libertà condizionale, Miranda tornò in carcere per un anno. Nel 1976, a 34 anni, Miranda morì dopo essere stato ferito con un coltello in una rissa in un bar a Phoenix.

La decisione della Corte Suprema che decise l’obbligo da parte dei poliziotti di informare gli arrestati dei loro diritti è considerata un’importante conquista nell’ambito delle più estese battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta. La sentenza si basò sul quinto emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che tra le altre cose garantisce che una persona non possa essere costretta ad auto-incriminarsi per un reato, e sul sesto, che tra le altre cose stabilisce che ogni imputato ha diritto a un avvocato. I giudici della Corte Suprema, con la decisione sul caso Miranda, ritennero che questi diritti non valessero solo in tribunale, ma anche nei momenti in cui un sospettato è in custodia dalla polizia. Fu una decisione molto importante soprattutto per la tutela delle persone meno istruite o con problemi mentali, e in generale per tutte quelle che per qualche motivo non conoscevano i diritti delle persone arrestate. L’obiettivo della decisione era prevenire i casi in cui la polizia obbligava con la forza i sospettati a confessare. Assicurandosi che gli interrogati si avvalessero di un avvocato, poi, la Corte Suprema intendeva permettere loro di parlare liberamente, e senza la preoccupazione di compromettersi da soli.

Il “Miranda warning” oggi
Oggi, gli agenti di polizia possono non leggere il “Miranda warning” ai sospettati se c’è un’emergenza di sicurezza pubblica. In questo caso, possono interrogare il sospettato senza informarlo dei suoi diritti, se si crede che sappia delle cose che possono prevenire un’imminente minaccia alla pubblica sicurezza, e le informazioni ottenute possono poi essere usate contro di lui in tribunale. Successe ad esempio con Dzhokhar Tsarnaev, uno dei due responsabili dell’attentato alla maratona di Boston, che nel 2013 venne interrogato senza essere informato dei propri diritti.

Gli arrestati a cui viene letto il “Miranda warning” sono comunque tenuti a rispondere alle domande su nome e età: se decidono di parlare con i poliziotti senza avvocato, possono poi smettere di farlo in qualsiasi momento, appellandosi al quinto emendamento. I diritti stabiliti dal “Miranda warning”, poi, valgono solo dal momento in cui si entra sotto la custodia della polizia: le informazioni date prima, ad esempio nelle risposte a domande fatte a una persona trovata sulla scena di un crimine – quando l’interrogato è quindi libero di andarsene – possono essere usate in tribunale. Non è poi necessario che i poliziotti leggano il “Miranda warning” ai sospettati esattamente durante l’arresto: basta che lo facciano prima di interrogarli.