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  • Venerdì 13 maggio 2016

Il più grande scrittore americano di cui non avete sentito parlare

Si chiama Breece Pancake, si suicidò a 26 anni e scrisse in tutto 12 racconti, appena ripubblicati da minimum fax

È appena uscito per minimum fax Trilobiti, l’unica raccolta di racconti – in tutto dodici – dello scrittore statunitense Breece D’J Pancake. Pancake, che nacque nel 1952 e si suicidò nel 1979, non è molto famoso, ma è considerato da molti critici e scrittori uno dei più importanti e influenti autori del Novecento, nonostante abbia pubblicato soltanto sei racconti quand’era in vita – quasi tutti sull’Atlantic Monthly – e ne abbia scritti in tutto dodici. In Italia Trilobiti uscì per la prima volta nel 2005 per ISBN Edizioni: Giacomo Papi, tra i fondatori della casa editrice, raccontò nell’introduzione la storia di Pancake, e come la casa editrice scoprì i suoi racconti, telefonò a sua madre e finì per pubblicarli.

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Breece Pancake era nato il 29 giugno 1952, a Milton, nel West Virginia. Si è sparato l’8 aprile 1979, domenica delle Palme, a Charlottesville, capitale dello stato. Aveva ventisei anni. È una notte in cui qualcosa è accaduto. Pancake ha bevuto molto. Poi è entrato in una casa vicino alla stanza in cui viveva. Si è seduto al buio. Quando i vicini sono tornati, hanno sentito muoversi qualcuno e lui è scappato correndo. Correndo verso casa, si è fermato. Poi, per qualche ragione inesplicabile, ha deciso di spararsi un colpo di pistola. È considerato uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento. Joyce Carol Oates lo paragona a Hemingway, per Kurt Vonnegut è «il più grande scrittore che abbia mai letto», è l’autore preferito di Tom Waits, per J.T. Leroy è «la mia Bibbia… leggo Pancake ogni giorno».

Era figlio di un impiegato della Union Carbide, che avrebbe avuto problemi con l’alcol e che sarebbe morto nel 1975, quasi contemporaneamente a uno dei suoi migliori amici, e di Helen Frazier che, dopo il suicidio del figlio, si sarebbe trasferita a Silver Springs, in Florida, la città dove l’abbiamo trovata. Breece aveva due sorelle molto più grandi, una delle quali si era trasferita a Santa Fe. Andarla a trovare è stato uno dei suoi pochi viaggi. Breece si era laureato alla Marshall University di Huntington e aveva accettato di insegnare all’Union Military Academy del West Virginia, forse perché ci aveva studiato Phil Ochs, il suo cantante preferito, un amico di Bob Dylan che si sarebbe impiccato nel 1976, a trentasei anni. Era alto e biondo. Amava pescare, cacciare, e amava le armi. Possedeva una Volkswagen scassata e gli piacevano le donne, soprattutto quelle che invece di andare con lui si limitavano a dargli un bacio sulla guancia.

Chi lo ha conosciuto lo descrive come un ragazzo timido e un po’ strano, che appare un giorno del 1976 davanti al suo futuro professore e mentore, James Alan McPherson, autore della prefazione all’edizione americana, per invitarlo a bere una birra e per comunicargli che intende lavorare con lui. E che poi se ne va per i corridoi dell’ateneo urlando «I’m Jimmy Carter and I’m running for President!», imitando la voce del futuro presidente degli Stati Uniti, venuto come Breece dagli stati del Sud. Raccontano che avesse una curiosa abitudine: riempire di regali chiunque incontrasse. Regalava i pesci che aveva pescato o i trilobiti che aveva trovato. Per McPherson, rappresentavano soltanto un modo, gentile, di tenere gli altri al di fuori dei suoi segreti. Raccontano anche di strane telefonate nel cuore della notte e di risse nei bar, come di una doppia vita appena intuita, come di un richiamo verso un mondo più simile a quello della zona povera, di foreste e minatori, dei monti Appalachi, in cui era cresciuto. Raccontano che dicesse di avere soltanto l’esperienza. E che soffrisse molto la differenza sociale che lo separava dai ragazzi bene dell’università di Charlottesville, in cui nel giugno 1976 avrebbe iniziato a guadagnarsi da vivere come assistente.

Alcuni mesi dopo la morte del padre e del suo migliore amico, si sarebbe convertito al cattolicesimo. Era un cattolico fervente, anche se nei suoi dodici racconti — l’unica cosa che abbia lasciato — la parola Dio compare soltanto una volta, nella bocca di un vecchio contadino, ricco e rancoroso; anche se, a margine di una cartolina inviata a un amico prima di uccidersi, aveva annotato, in piccolo: «Se non fossi un buon cattolico, prenderei in considerazione l’idea di divorziare dalla mia vita». John Casey scrive nella postfazione dell’edizione americana: «Entrò nel suo destino con intensità, quasi avesse una diversa, più profonda, misura del tempo. Era immediatamente un cattolico più vecchio di quanto non fossi io. Iniziai a sentire che non solo imparava velocemente le cose, le assorbiva velocemente, ma che le invecchiava in fretta. Possedeva un senso autentico, una memoria perfino, di modi di essere che non poteva avere conosciuto in prima persona. Sembrava che avesse catturato l’esperienza di una generazione precedente insieme alla sua, non al suo posto».

Lasciava i suoi racconti a chiunque potesse apprezzarli. Ovviamente venivano apprezzati. Nel 1976 l’Atlantic Monthly, un grande e antico mensile americano, pubblicò Trilobites. Per un banale errore di battitura l’iniziale del secondo nome, Dexter, diventò DJ. Quando ebbe in mano le bozze, Pancake scelse di non correggerlo. La raccolta, uscita postuma nel 1983, avrebbe alimentato un culto segreto ventennale a cui, fino alla ristampa del 2002, sarebbero stati ammessi soltanto scrittori e lettori sensibili. La scoperta di Breece Pancake passa di qui, dalla valorizzazione dei propri archivi da parte del sito dell’Atlantic Monthly. Pochi giorni dopo chiedevamo a un agente che scartabellò, cercò, disse che sì, che il nome lo aveva presente, che no, che forse si sbagliava, che ora ricordava, mesi prima gli aveva chiesto di Pancake un grande editore italiano e che lui aveva scritto senza ottenere risposta. Due ore dopo, su un articolo online della Mississippi Review, c’era l’informazione che cercavamo: «Helen Pancake sold the house in 1985 when she moved to Florida». La città, l’indirizzo e il numero di telefono della madre di Breece Pancake si trovavano su whitepages.com. È stata una delle telefonate più belle che possano capitare. E adesso i racconti di Pancake sono anche in italiano.

Era l’8 aprile 1979, domenica delle Palme, una notte in cui qualcosa è accaduto. Forse quella notte il gigantesco tempo, che Pancake sentiva come se gli si fosse seduto addosso e che ha immobilizzato nei suoi racconti, era così vasto da fargli sentire che tutto ciò che era vivo in fondo era già morto. Forse quella sera ciò che esiste e la sua polvere si parlavano come fanno nei suoi racconti, confluivano senza attrito l’uno nelle regioni dell’altra come negli spazi che sapeva descrivere, lottavano inutilmente per affermarsi come sulla pelle dei personaggi che riusciva a fare vivere.
Dicevamo di Dio. Dicevamo che non viene mai nominato.
Parlavamo del tempo. Che allaga lo spazio, in questi racconti, fluido e immobile. Le tartarughe che agonizzano all’amo, le volpi cacciate, i galli combattenti che sanguinano, le vespe bruciate e gli esseri umani che popolano queste storie, semplicemente, ci sono. Vorremmo dire che tutto, in Pancake, è Dio anche se Dio non esiste: perché tutto qui esiste con tanta verità e sofferenza che non c’è più nessun bisogno che Dio esista davvero. Nella prosa di Breece D’J Pancake tutto persiste. È. Anche quello che muore. «Mio padre è una nuvola color kaki»… «Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni». Tutto permane, ogni sensazione, ogni colore, ogni parola ascoltata, ogni gramigna che cresce al lato dell’asfalto, tutto lancinante e meraviglioso, nello spazio e nel tempo, nell’istante e nel luogo, in questo infinito morire.

trilobiti

Trilobiti sarà presentato al Salone del libro di Torino domenica 15 maggio alle 15.30 dagli scrittori Violetta Bellocchio, Vincenzo Latronico, insieme al direttore editoriale di minimum fax Giorgio Gianotto e alla traduttrice Cristiana Mennella.