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  • Giovedì 5 maggio 2016

Il figlio di Togliatti

La solitudine e la malattia di Aldo, figlio dello storico leader del PCI, nel nuovo libro di Massimo Cirri

Esce oggi per Feltrinelli il libro Un’altra parte del mondo di Massimo Cirri, psicologo e giornalista, autore e conduttore della trasmissione radiofonica Caterpillar e di diversi libri fra i quali A colloquio e Il tempo senza lavoro (oltre che blogger del Post).

Cirri ricostruisce nel libro la storia di Aldo Togliatti, il figlio del leader storico del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti, dagli anni vissuti in Russia fino alla fine della Seconda guerra mondiale con i genitori spesso lontani, alla crescita con la figura ingombrante del padre, al difficile ritorno in Italia, fino a sviluppare problemi di salute mentale che lo porteranno a una vita molto ritirata e, dopo la morte della madre, al ricovero in una clinica dove ha passato gli ultimi trenta anni della sua vita, fino alla morte nel 2011.

Massimo Cirri presenterà il libro domenica 8 maggio a Rovigoracconta.

In questo estratto il racconto del viaggio di ritorno in treno nel 1946 da Torino a Roma di Aldo e Luciano Barca, allora giovane redattore dell’Unità, che era stato incaricato da Palmiro Togliatti di portare con sé in vacanza in un campeggio studentesco internazionale a Cervinia il figlio, con l’intento di farlo uscire dall’isolamento e dalla solitudine in cui viveva; e di come durante il viaggio di ritorno Aldo Togliatti sia finalmente riuscito a parlare con il giovane amico dopo due settimane di convivenza in cui si erano scambiati pochissime parole.

***

Quello tra Torino e Roma, sulle ferrovie del 1946, che da solo da pochi mesi non sono più Regie ma dello Stato, dura tanto. Aldo e Luciano Barca sono soli, alla stazione di Torino gli ultimi saluti con i compagni. Barca è in corridoio, guarda il paesaggio fuori dal finestrino, pensa al lavoro che domani ricomincia. Aldo è nello scompartimento con i sedili di legno. Barca sente una mano leggera sul braccio. Alza gli occhi: è Aldo. Che sta cogliendo questa ultima occasione, nel tempo sospeso del viaggio, prima che il treno arrivi a Roma e i meccanismi della vita richiudano la piega di questa possibilità. Ha deciso, pensiamo con fatica e tormento, di rompere il muro e di parlare. Così comincia a dire e dice tutto. Parla per ore e ore, in piedi nel corridoio del treno, con qualcuno che ogni tanto passa – “Scusate” – e loro si scostano per lasciarlo passare ma non se ne accorgono neanche. Non si spostano di mezzo metro verso lo scompartimento, perché farlo muterebbe qualcosa, un assetto, una predisposizione che ha avuto bisogno di due settimane per venir fuori. E si perderebbe. Quindi in piedi.

Stavano in piedi anche il babbo e lo zio Ciro, che era suo cugino ma stretto come un fratello, quando lo zio veniva a trovarlo. Hanno vissuto infanzia, adolescenza e giovinezza insieme, in una grande casa contadina toscana. Poi in due case vicine. Adesso lo zio Ciro sta lontano, più verso la pianura, in una villetta costruita dal benessere degli anni settanta. Che ha cambiato la vita anche agli artigiani tessitori dei dintorni di Prato, dando acqua corrente e altre comodità ma, si vede, togliendo qualcosa alle relazioni. Saranno tre chilometri, anche tre chilometri e mezzo, una distanza che si sente. Così, quando lo zio passa a salutare, il babbo ferma i telai con i quali sta lavorando perché fanno un rumore infernale, e si mettono a chiacchierare. In piedi, appoggiati alle grandi macchine. Parlano di parenti, paesani, figli, case. Di lavoro e di tutto. Di lavoro soprattutto. Parlano fittissimo. Il babbo ha lasciato i motori elettrici dei telai accesi, perché è questione di minuti, si finisce il discorso e lui ricomincerà a lavorare. Per gli ex contadini ora tessitori pratesi non c’è nulla di più importante e interromperlo, il lavoro, è sempre difficile. Ma dopo qualche ora li spegne, per parlare meglio, adesso che lo zio sta raccontando di… Dopo qualche ora ancora, nel laboratorio dei telai che sta attaccato a casa ripassa la mamma, che prima si era affacciata ma solo un attimo per salutare. Perché il babbo e lo zio quando parlano parlano. Ma ora è quasi ora di cena: Ciro ti fermi, vero? Ciro dice che no, ci mancherebbe, a casa lo aspettano, due minuti e vò via. Non va via. Noi ceniamo senza il babbo, ridendo di quel rituale che si ripete. Poi mio fratello e io passiamo a salutare i due che sono sempre lì in piedi. Lo zio dice: “Guarda te come s’è fatto tardi e noi due qui a perder tempo come due bischeri. Due minuti e vò via”. Noi andiamo a letto. Loro continuano a raccontarsela fino dopo mezzanotte. Il romanzo familiare dice che il record omologato dello zio Ciro e del babbo è di dodici ore e quaranta minuti di parole ininterrotte, dalle tre del pomeriggio alle tre e quaranta di notte. Sempre in piedi. Perché se ci si mette a sedere si perde l’equilibrio.

“In piedi nel corridoio abbiamo parlato,” scrive Barca e poi si corregge: “Meglio, ha parlato”. Aldo inizia con il dolore più grande, quello che lo riempie di rancore e rabbia: il trasferimento dall’Unione Sovietica all’Italia. Vi è stato obbligato dai genitori. Suo padre è tornato nel 1944 con un viaggio tormentato fino a Napoli, che ha trovato piena di polvere per il Vesuvio in eruzione e di rovine concrete e morali. Poi è andato al governo. La mamma è partita da Mosca poche settimane dopo, è andata anche lei, subito, a Napoli. Per Aldo, quando è partito, il distacco è stato durissimo, comprensibilmente. Non ha ancora vent’anni, ne ha passati più di undici in Unione Sovietica; dal novembre 1934, ininterrottamente. Partire è un cambiamento drammatico. Un po’ per gli amici perduti: ne aveva pochi, lo ammette, sa delle sue difficoltà ad averne, ma qualcuno lo aveva. A noi piace ricordare Chavdar, l’ingegnere bulgaro che ha conosciuto a dodici anni a Ivanovo e che frequenterà ancora a Mosca. Altro dolore, più profondo delle perdute amicizie, è perché lassù – dice lassù perché l’Urss sta più in alto, geograficamente e umanamente – tutto era diverso. Cosa, più di tutto? Lassù tutto gli appariva semplice: “Che cosa era bene e che cosa era male. Che cosa poteva aspettarsi dagli altri. Quali erano i suoi doveri”. Da ultimo, a quest’elenco di differenze strazianti, Aldo aggiunge il che cosa programmare per la giornata. Che è la questione del proprio tempo e di come esserci dentro, nel tempo. E come fare per farsi riempire dalle cose che si fanno. Ma con ordine. Aldo vede che Barca lo ascolta ma che, adesso, forse non capisce bene. Allora gli mette davanti il paragone, diretto, tra l’Università di Mosca e quella di Torino, dove è iscritto a Ingegneria.
Prende Barca per mano e, mentre sono in quel corridoio di treno, lo porta con lui nelle aule del Politecnico: non lo vede Barca questo caos? Caos di orari, di corsi, di rapporti con gli altri studenti, lui li chiama “i colleghi” e con i professori. Che arrivano in ritardo, cambiano aula, pasticciano. E così, crediamo noi, bisogna arrangiarsi. L’italica arte di arrangiarsi. E nell’arrangiarsi passano avanti i furbi, gli scaltri, quelli che nuotano meglio nelle acque meno chiare. E così, pensiamo pensi Aldo con amarezza, se ne va un po’ di uguaglianza e democrazia sostanziale. Vuoi dargli torto?
E poi l’ordine. O la sensazione di ordine: regolare funzionamento, regolare svolgimento, rispetto delle regole. Valori che Aldo ha fatto propri negli anni dell’Unione Sovietica e non ritrova adesso. L’Urss era un paese ordinato? Domanda mal posta, risposta impossibile. Viene in mente un frammento di Guerra assoluta, la storia della macelleria tra tedeschi e sovietici che uccide ventisette milioni di sovietici, uno su sette. Chris Bellamy ci porta a Mosca nei giorni di metà ottobre 1941, ci andiamo un attimo, è importante per capire il momento: i tedeschi sono alle porte della città e stanno ancora venendo avanti. Il fronte che difende la capitale può cadere da un momento all’altro: la città è stata svuotata di tutte le fabbriche importanti, smontate e trasportate in Asia. Quelle rimaste sono state minate. Come i ponti e le centrali elettriche. Evacuati e spostati anche i teatri, che per i moscoviti è un brutto segno. Idem le ambasciate. Tutto il governo trasloca sul Volga, in una cittadina che si chiama Kujbyšev. Anche Aldo e sua madre sono partiti, un viaggio lungo, in treno. Palmiro Togliatti invece a Ufa, Baschiria. A Mosca ci sono stati saccheggi dei negozi e atti di sciacallaggio. Anche rapine, nonostante il coprifuoco. Ma Bellamy trova un rapporto del comandante della città su com’è andato quel fine settimana: dalle 19 di sabato 19 alla stessa ora di domenica 20 ottobre, quello che può essere l’ultimo weekend di Mosca capitale dell’Urss, nel prossimo potrebbero comandare le SS. Una notte seduti sull’orlo del baratro che stupisce lo storico inglese. I dati parlano di 1530 persone fermate: 14 agenti del nemico, 26 disertori, 15 che hanno turbato l’ordine pubblico, 33 che hanno fatto vandalismi e 1442 che sono “assenti dalle loro unità”. Cioè soldati, agenti della sicurezza o lavoratori comandati a servizi pubblici che non sono dove dovrebbero essere. Dice il rapporto che la stragrande maggioranza dei fermati viene portata a un punto di controllo e poi rimandata a casa. Sette finiscono in galera e dodici fucilati. “A parte i dodici giustiziati,” scrive Bellamy, “potrebbe essere un qualunque sabato notte in una grande città britannica o americana di oggi.” Un paragone discutibile? “La Russia di Stalin,” aggiunge, “era abituata all’ordine.” Se lo fa lui, noi possiamo mettere a confronto quella notte nelle strade di Mosca con una mattina qualsiasi nei viali del Politecnico di Torino? Nelle aule del Politecnico, forse perché è stato pesantemente bombardato dalla Royal Air Force nel dicembre del 1943, ancora adesso c’è, obiettivamente, più caos. E Aldo Togliatti lo sente insopportabile.

Torniamo in treno. Adesso Aldo sta raccontando a Luciano Barca della sua lontananza dagli altri studenti. Della frustrazione per averci provato, per aver tentato di stabilire con alcuni colleghi un minimo di rapporto. Ma senza risultato. “Tutto finiva subito.” Perché? Chiede Barca che ha quasi timore di interrompere il flusso di comunicazione che ha cercato per due settimane di aprire e che adesso gli si riversa addosso con l’onda di un torrente. Perché? È per via di quel cognome pesante? Per quello, chiamarsi Togliatti, certo, ma anche per altro. Che Aldo non dice. Motivazioni, difficoltà, nodi che gli sembrano già appartenere al passato. Inutile cercarli ora. Ora ha rinunciato, si percepisce sconfitto. Ora, ormai, è sempre solo. “La maggioranza dei colleghi è cattiva.” Colleghi, dice Aldo per vicinanza con la lingua russa. E cattivi come bambini cattivi.
Barca ci riprova, vuole capire e cerca una causa, un motivo a cui ricondurre quella cattiveria. Chiede: Ma perché cattiva? Ti attaccano perché sei comunista? Perché sei il figlio di Togliatti? La risposta di Aldo è netta: No. Non è questo. Che cos’è allora? È qualcosa che sta più all’interno, è la volgarità, dice Aldo. E poi prova a spiegarsi, perché ha colto un velo di perplessità nello sguardo di Barca. È che è praticamente impossibile trovarsi in tre o quattro senza che il discorso non prenda sempre la stessa piega. Quale? Diventa volgare, sporco, ammiccante. Ed è talmente intorbidito, il linguaggio laggiù all’università, che è sempre infarcito di parolacce. E le usano tutti. Anche le ragazze. E questo sembra ferire Aldo un po’ di più. E chi non le usa viene fatto sentire diverso, un bambino da prendere in giro, lui dice “schernire”, con le parole, ancora più violente, e con altre piccole violenze. Non ci dice quali. Le possiamo immaginare: goliardia universitaria? Angherie da trita tradizione istituzionale? Quelli dei corsi avanzati verso i nuovi? Di più verso chi arriva da fuori invece che dai soliti licei di Torino? Gesti e atteggiamenti più violenti – ma siamo sempre all’università, non in un quartiere periferico – e più incomprensibili? Si può pensare che Aldo è molto sensibile. Come se fosse senza pelle, o con una membrana tra sé e il resto più facilmente permeabile alle cattiverie del mondo. Che non incontrano la scorza dell’abitudine, dell’indifferenza, del rilanciare l’offesa verso chi te l’ha tirata contro o del dirottarla altrove. Con il sarcasmo, per esempio, o l’ironia. O le abilità del linguaggio, perché – ipotizziamo – Aldo possiede l’italiano della classe politica comunista che è vissuta all’estero, un po’ diverso dal gergo dei ventenni di Torino o Roma. Un vocabolario che lo ripara meno del necessario. Così le bruciature delle parole non trovano ostacolo, passano dentro e ustionano. Lasciano danno. Forse, ipotesi ulteriore, della prima ancor meno fondata, Aldo Togliatti ha già passato un crinale e dalle relazioni con gli altri umani si sente escluso a priori. E colpito dalle frecce delle cattiverie anche quando queste non sono indirizzate a lui. O anche quando non sono frecce ma banali scambi tra il più e il meno. La sua sensibilità è talmente arrossata – restiamo in metafore epidermiche – che sente tutto e più facilmente, e tutto ferisce e brucia. Sempre e senza scampo.
Ma basta congetture. Torniamo alla concretezza sferragliante di quel corridoio su un treno che viaggia verso Roma. Aldo continua a parlare e Luciano Barca ascolta. Cerca di interloquire. Ha talmente bisogno di attaccarsi a qualcosa, un’obiezione che argini tutta questa delusione che esce da Aldo, che fa anche un po’ l’antisovietico. Non è da lui, ma prova a chiedere, a dire che, insomma, quanto a parolacce anche i russi non scherzano. Obiezione respinta. Perché è diverso, ribatte Aldo, subito, e spiega. Ci ha pensato, deve averci pensato su per giorni interi a queste differenze tra un prima sicuro, la Russia, e questo altrove dove si sta smarrendo. In Unione Sovietica “certo che se uno va a ubriacarsi in comitiva sa quello che lo aspetta. E non mancano i tipi litigiosi”. Non deve essere stato facile, per il sottile Aldo, imparare ad affrontarli: nei corridoi dell’hotel Lux, in collegio a Ivanovo, nel Caucaso affollato di profughi e in tutte le scuole che ha attraversato. Ma gli ubriachi molesti e i litigiosi, nella sua vita in Unione Sovietica, sono le eccezioni e con un po’ di attenzione puoi tenertele lontane. Non è difficile imparare a farlo e lui lo ha fatto. Lui lassù era capace. Perché “nei rapporti normali non è così”. Quelli sono normali perché c’è rispetto, educazione. Colpisce un ventunenne che chiede rispetto e educazione, la cui mancanza – immersa in una compilation di altre nostalgie – siamo più abituati a sentire in bocca a persone più avanti con gli anni. Ma Aldo Togliatti, ventun anni appena, ha già una grande nostalgia alle spalle.
Qui – invece – ti feriscono continuamente.” A volte, racconta ancora, “ha paura di parlare perché una parola su due ha un doppio senso”. Le parole si sdoppiano. Da strumento di vicinanza si trasformano in esclusione, derisione, crudeltà. Velocemente, senza capire quando succederà e come e perché: “E un discorso innocente viene rovesciato in volgarità che spesso non capisco, ma delle quali tutti ridono, mettendo alla berlina chi non ci sta”. Aldo non ci sta, o vorrebbe anche starci, ma non sa come si fa. Non glielo hanno insegnato. O quando l’hanno spiegato lui non c’era. E adesso è fuori dalla comunità degli uomini e delle donne che vanno all’università. Alla berlina.
Ha fatto in tempo a dire che la causa di tutto questo dolore, della palude che sente diventata la propria vita – il dover lasciare l’Urss per Roma – è direttamente addebitabile a suo padre e a sua madre. “Trasferimento durissimo,” sintetizza Barca, “per il quale ne vuole ai genitori.” Quando Aldo ha raggiunto Barca in corridoio e ha cominciato a parlare ha iniziato da lì. È quello l’esordio. Volerne, in frasi negative, sta per serbare rancore, avercela con qualcuno per un qualche motivo, provare e nutrire risentimento. Viene dal francese en vouloir e Aldo, lo abbiamo detto?, sa bene il francese. La sceglie come lingua quando deve dire di sé. È successo da bambino, a Ivanovo. In frasi positive “volerne” è tutta un’altra cosa, ma sempre con un che di struggimento: come quando si sta lì a “chiedere un bacio e volerne altri cento”.
Luciano Barca non ci racconta i dettagli del volerne di Aldo verso i genitori. Forse non sono stati elencati; forse non è il caso di prenderne nota analiticamente. Non sappiamo se, nel rancore del figlio, madre e padre sono una massa indistinta o se uno si differenzia dall’altra. Probabilmente il padre sarà avanti; di sicuro il rapporto con la madre diventerà strettissimo, forse un viticcio di rancore comune verso l’ex marito sempre padre.
Alla fine Aldo, che immaginiamo stremato da tutto questo raccontare di sé dopo un silenzio senza fine, chiede a Barca di parlare con il padre. La funzione di mediatore è acclarata così come è netto il messaggio che deve portare: “Non me la sento di rimettere piede lì, all’università, a settembre. Voglio andare a lavorare,” diglielo. Barca, che vediamo attonito, stanco e stordito, promette. Lo farà di certo. Non c’è altro da aggiungere. Sono le quattro del mattino, il treno corre. “Siamo andati in cabina a dormire.” Immaginiamo un laconico scambio di “buonanotte”. Ma chissà.
Luciano Barca è di parola. Tornato a Roma racconta a Togliatti. Ma solo “l’essenziale”, per rispetto dell’intimità che si è creata con Aldo. Togliatti “ci rimane male”. Ha molte cose per la testa, comprensibilmente, pubbliche e private. Il 5 agosto c’è stata una manifestazione contadina in Sicilia, contro la requisizione del grano, con 24 morti, 4 carabinieri e 20 braccianti. C’è Nilde Iotti alla quale ha scritto, lo stesso 5 agosto dalla montagna, che, è inutile negarlo, pensa a lei e sente “una vertigine davanti all’abisso”.
Ma Palmiro Togliatti è leale con Barca. Promette che asseconderà il desiderio di Aldo, pur non condividendolo per nulla. Aldo lascia l’università dove non si trova e va a lavorare all’azienda elettrica di Torino.

(C) Giangiacomo Feltrinelli editore
Pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano