Mezzo grado

Basta così poco per ridurre i rischi del riscaldamento globale, dice un nuovo studio; e ieri è stato firmato l'accordo sul clima di Parigi

(David McNew/Getty Images)
(David McNew/Getty Images)

Mentre milioni di persone stavano festeggiando la Giornata della Terra, il giorno dedicato all’ambiente e alla salvaguardia del nostro pianeta, nella sede delle Nazioni Unite a New York i leader del mondo si sono riuniti per firmare un documento che riguarda il futuro di tutti: l’accordo di Parigi sul clima, approvato formalmente alla fine del 2015 dopo un’attesa e complicata conferenza sul cambiamento climatico. In quell’occasione, 195 nazioni si sono impegnate a rallentare il riscaldamento globale, con l’obiettivo di evitare che la temperatura media globale aumenti di più di 2 °C. Venerdì 22 aprile, infine, 175 paesi hanno firmato l’accordo, e ora lo sottoporranno ai propri governi nazionali.

Gli effetti dell’aumento delle temperature sono visibili da tempo: eventi atmosferici più intensi e catastrofici, stagioni fredde più miti a diverse latitudini e periodi di grande siccità, con conseguenti danni per l’agricoltura e l’allevamento. Dopo decenni di ripensamenti e di conferenze sul clima inconcludenti, molti osservatori sono rimasti sorpresi dai progressi raggiunti – per lo meno sotto forma di intenti – a Parigi, e l’accordo che firmato il 22 aprile è stato definito la vera prima grande opportunità per migliorare le cose, o evitare che peggiorino ancora. I problemi da superare sono comunque ancora molti, a partire dal fatto che nessuna nazione ha prodotto un proprio piano per rispettare gli accordi di Parigi, che impegnano a ridurre le emissioni e ad aumentare sensibilmente la produzione di energia da fonti rinnovabili.

2 °C in più sono troppi?
Un recente studio, presentato il 21 aprile alla conferenza annuale della European Geophysical Union (EGU) a Vienna, Austria, ha messo di fatto in dubbio il limite dei 2 °C stabilito a Parigi, dicendo che potrebbe non bastare. È stato realizzato da un gruppo internazionale di ricercatori, coordinato dall’analista sui cambiamenti climatici Carl Schleussner, e dice che mezzo grado potrà fare una differenza enorme nelle aree del pianeta già note per essere a rischio a causa del cambiamento climatico. Significa che un incremento di 1,5 °C – quindi al di sotto dei 2 °C posti come limite massimo – aumenterà notevolmente gli effetti sulle zone a rischio.

Ai tropici, stagioni calde con temperature superiori alla media potrebbero durare il 50 per cento in più rispetto a oggi, con un impatto sulle coste coralline tale da mettere a rischio la loro sopravvivenza dopo il 2050. Senza contare, comunque, che i coralli sono già messi male e che cambiamenti nei loro ecosistemi – e di conseguenza in quelli di molte altre specie marine – inizieranno comunque entro i prossimi 15 anni. Mezzo grado in meno, dice la ricerca, consentirebbe al 30 per cento di questi coralli di sopravvivere almeno fino al 2100.

Gli autori dello studio, che è stato pubblicato sulla rivista scientifica Earth Systems Dynamics, spiegano che in passato si era ipotizzato che una differenza tra un aumento di 1,5 o di 2 °C non comportasse grandi differenze, ma al netto dei margini di errore dei modelli matematici ora è stato dimostrato che mezzo grado può essere determinante. Nella ricerca ci sono diversi altri esempi: 2° C in più porteranno le coltivazioni di mais e di grano in Centro America e nell’Africa Occidentale a ridursi del doppio rispetto allo scenario degli 1,5 °C.

Mezzo grado in più sarebbe inoltre responsabile di un innalzamento di ulteriori 10 centimetri del livello degli oceani, che rallenterebbero la loro salita solo nel caso in cui l’aumento sia contenuto entro 1,5 °C. Altro esempio, a noi più vicino: per l’area del Mediterraneo nel caso di un aumento di 2 °C è prevista una riduzione del 20 per cento dell’acqua oggi disponibile entro la fine di questo secolo; mezzo grado in meno (1,5 °C) e la riduzione seppure consistente si fermerebbe al 10 per cento.

La ricerca è stata realizzata tenendo in considerazione 11 diversi indicatori dell’impatto determinato dal cambiamento del clima, identificando 26 aree del mondo su cui sono disponibili dati e previsioni effettuate in studi precedenti. Parte del materiale era stato già utilizzato in passato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, l’organizzazione delle Nazione Unite che si occupa di studiare cause e conseguenze del riscaldamento globale.

Le critiche al nuovo accordo
Nell’accordo di Parigi si legge che i paesi del mondo si impegnano a mantenere l’aumento medio della temperatura globale “bene al di sotto dei 2 °C”, una formula criticata da diversi paesi partecipanti come gli stati insulari del Pacifico, che avevano chiesto di fissare il limite massimo a 1,5 °C. Nel 2009 i governi del mondo si erano già impegnati a non sforare il limite dei 2 °C, la nuova formulazione aggiunge un impegno a starne al di sotto, ma senza vincoli particolari. La maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto che il riscaldamento sia ormai in corso e sia inevitabile, ma che ci sia ancora tempo per governarlo ed evitare che peggiori.

Gli Stati Uniti, che per anni non hanno assunto posizioni incisive a sufficienza sul tema del cambiamento climatico, a Parigi hanno dimostrato di avere progetti più concreti per il futuro, ma il più importante di tutti annunciato dal presidente Barack Obama per ridurre le emissioni delle centrali elettriche è stato bloccato dalla Corte Suprema a febbraio, rinviato a una corte federale che si esprimerà a giugno e sul quale potrà poi intervenire nuovamente la Corte Suprema. L’impressione degli analisti è che comunque Obama terminerà il suo secondo mandato senza avere messo in piedi un piano solido per mantenere gli impegni di Parigi, che per gli Stati Uniti comportano una riduzione del 26 – 28 per cento delle emissioni entro il 2025 rispetto al 2005. Nello scenario più ottimistico si arriverà al 23 per cento.

On espère
Oltre al come, che continua a mancare negli impegni assunti dai governi del mondo, sull’accordo di Parigi influiranno anche i tempi della burocrazia. La firma di ieri è stato più che altro un momento simbolico: ogni paese dovrà infatti presentare nei prossimi mesi i documenti che attestano formalmente la ratifica dell’accordo. Per farlo avranno un anno di tempo e il patto diventerà effettivo solo quando 55 paesi responsabili del 55 per cento delle emissioni globali di gas serra lo avranno fatto. Si parla comunque della possibilità di accelerare il processo e di rendere effettivo l’accordo entro la fine di quest’anno, in modo da essere certi che sia Obama a firmarlo per gli Stati Uniti. Per ora è solo un’eventualità, e c’è un certo scetticismo tra i diplomatici all’ONU, come ha detto a qualcuno l’ambasciatore francese alle Nazioni Unite François Delattre: “On espère”, speriamo.