La violenza domestica nelle coppie gay

Esiste, e l'idea che riguardi solo le coppie eterosessuali ci ha resi impreparati ad affrontarla

(TONY KARUMBA/AFP/Getty Images)
(TONY KARUMBA/AFP/Getty Images)

Di solito si pensa alla violenza domestica come a una questione di genere: uomini-che-picchiano-le-donne. Non si considera quasi mai, invece, che la violenza domestica si possa verificare e si verifichi anche all’interno di una coppia formata da persone dello stesso sesso, con meccanismi e caratteristiche specifiche e riconoscibili, come da alcuni anni hanno mostrato studi, esperienze e ricerche.

Il mese scorso BuzzFeed ha pubblicato un lungo articolo che raccoglie ricordi e testimonianze di alcune donne che hanno subìto abusi dalla loro compagna e di uomini che li hanno subiti dal loro compagno. Molti altri giornali britannici si sono occupati ultimamente della questione perché “Broken Rainbow”, un’associazione che offre aiuto nei casi di violenza domestica tra coppie dello stesso sesso e che riceve circa 10 mila chiamate all’anno, rischiava di chiudere per un ritardo nell’erogazione di alcuni finanziamenti pubblici.

Perché se ne parla poco?
La ragione principale della scarsa conoscenza e del mancato riconoscimento della violenza nelle coppie omosessuali sono gli stereotipi che circolano intorno alla violenza domestica stessa, in generale. Innanzitutto la diffusa opinione che sia tutta una questione “di forza”. La violenza domestica ha a che fare con i comportamenti violenti e coercitivi, con le intimidazioni e con il controllo: cose che spesso non si traducono in modo esclusivo in azioni fisicamente violente ma in maltrattamenti psicologici, sessuali e sociali. Questo, ovviamente, non ha a che fare né con il genere biologico né con l’orientamento sessuale.

Nel peggiore dei casi, questa credenza porta a escludere la possibilità che una relazione omosessuale possa essere violenta. Nel migliore, anche quando la violenza domestica viene riconosciuta come tale, ne viene sottostimata la gravità: viene percepita come una violenza tra soggetti “pari”, che non avrebbe lo stesso grado di pericolosità e le stesse conseguenze della violenza che può subire una donna da parte di un uomo. Questo ha delle conseguenze.

Gli stereotipi intorno alla violenza domestica e l’identificazione di un abuso con il rapporto maschio-femmina portano molto spesso gay e lesbiche a non riconoscere, loro per primi, quello che sta accadendo alla loro relazione: a non interpretare cioè l’aggressività del partner come un vero e proprio maltrattamento. In alcuni casi c’è addirittura l’accettazione della violenza come qualcosa di inevitabile all’interno di un rapporto omosessuale, che radicate credenze sociali continuano a definire come “sbagliato” o “patologico”.

In una specie di circolo vizioso, se invece c’è la consapevolezza di un abuso, spesso si sceglie di non denunciare l’aggressore per il timore dell’omofobia, dei pregiudizi e per la paura di non vedere riconosciuta la gravità della situazione in cui ci si trova. Harvey Barringer, amministratore delegato di Broken Rainbow, ha raccontato per esempio la risposta, piuttosto comune, che alcuni agenti di polizia hanno dato a una donna transessuale picchiata dal compagno: «Non eri un uomo una volta? Perché non gli hai dato uno schiaffo?». L’impreparazione spesso riguarda anche gli operatori e le operatrici dei servizi tradizionali di sostegno alle vittime di violenza domestica. Yejin Lee, che collabora al programma anti-violenza della città di New York, ha spiegato che l’assunzione di una prospettiva esclusivamente eterosessuale al problema è stata e continua a essere un ostacolo enorme per gay e lesbiche in cerca di aiuto: «Il problema è il modo in cui la violenza domestica è stata inquadrata negli ultimi 30 anni. Poiché l’intero movimento contro gli abusi domestici è iniziato come un movimento di donne maltrattate, è rimasta radicata l’idea che le vittime siano tutte donne eterosessuali sposate».

Nel marzo del 2015 la 27 Ora, blog del Corriere della Sera che si occupa di questioni di genere, ha intervistato un uomo di 35 anni, che vive in provincia di Bologna e che ha deciso di denunciare la violenza domestica subita dal compagno:

«Se tornassi indietro non denuncerei più, chiuderei la relazione e basta. È stato troppo umiliante. Alcuni agenti mi hanno detto che avrei dovuto rispondere alle botte del mio ex visto che sono un uomo. Mi sono sentito io quello sbagliato, incapace di difendersi. E il centro antiviolenza a cui mi sono rivolto ha deciso solo dopo una riunione straordinaria di accettare il mio caso: ho dovuto chiamare decine di volte. Poi abbiamo iniziato il percorso, ma con un grande imbarazzo. Ero il primo uomo che vedevano. E che dire delle dichiarazioni che ho rilasciato nell’ufficio del pm, mentre un flusso di persone andava avanti e indietro, sghignazzando per i miei racconti? Credo che le persone e le strutture non siano pronte per storie come la mia. Quando la vittima di violenza domestica è un uomo tutto diventa più difficile. Avrei voluto trovare le istituzioni all’altezza della situazione, invece mi sono solo sentito a disagio».

C’è infine un’ultima ragione del mancato riconoscimento e della poca informazione sul problema: la paura all’interno della stessa comunità LGBTI a far emergere la violenza domestica, per l’idea che si possa aumentare così il discredito nei suoi confronti. Secondo Lettie L. Lockhart, che assieme ad altri ricercatori ha lavorato su questo tema attraverso uno studio sul “Journal of Interpersonal Violence”, «lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer possono essere riluttanti a denunciare gli abusi, perché non vogliono essere visti come traditori della comunità LGBTI: così le statistiche che arrivano dalle fonti ufficiali probabilmente indicano soltanto i livelli minimi di violenza». La denuncia di abusi potrebbe insomma esporre al rischio di rafforzare gli stereotipi omofobi. In realtà, come spiegano gli esperti, come dice il buon senso e come confermano i dati, la maggior parte delle coppie omosessuali non sono violente: è la violenza domestica a non avere discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

Caratteristiche specifiche
Ci sono comunque degli strumenti di controllo specifici nella violenza domestica nelle coppie omosessuali. Harvey Barringer di Broken Rainbow ha spiegato che tra coppie formate da persone dello stesso sesso, l’outing come arma di ricatto ha un ruolo molto importante: circa l’85 per cento delle persone che si rivolgono alla sua associazione denunciano un partner violento che utilizza come minaccia il fatto di raccontare a colleghi, familiari o figli l’omosessualità del compagno o della compagna su cui vogliono continuare a esercitare un controllo.

Barringer ha individuato altre caratteristiche specifiche della violenza domestica tra persone LGBTI, dicendo che sono in aumento: la positività all’HIV viene usata come forma di ricatto, in un doppio senso. O si minaccia di rivelare agli altri la sieropositività del partner che si vuole controllare o gli si impedisce di prendere i farmaci necessari alla cura. Quest’ultimo fenomeno si verifica anche per i trattamenti ormonali a cui un partner transessuale deve costantemente sottoporsi.

I dati
I dati sui tassi di abusi commessi da partner dello stesso sesso sono disponibili solo da qualche anno e solo in alcuni paesi. Ancora oggi molte delle statistiche e dei materiali sulla violenza domestica si concentrano esclusivamente sulle relazioni eterosessuali, e in particolare sulle donne eterosessuali. La maggior parte degli studi si concentra poi sulla violenza in generale, non su quella all’interno della coppia, ed è quindi molto difficile farsi un’idea.

Nell’ultimo rapporto della National Coalition of Anti-Violence Programs (NCAVP) intitolato “Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer and HIV-Affected Intimate Partner Violence” sono stati raccolti dati da 16 diverse organizzazioni degli Stati Uniti e si segnala come nel 2014 si siano verificati 15 casi di omicidio in coppie LGBTI legati a violenza domestica (nel 2013 i casi di omicidio erano stati 21). In tutto il paese, poi, il NCAVP ha ricevuto quasi 2.166 segnalazioni di abuso domestico da persone in relazioni omosessuali. Gli autori dei diversi tipi di violenza classificati dal NCAVP ai danni di persone omosessuali sono nella maggior parte dei casi uomini gay.

Nel 2014 sulla rivista Plos Medicine è stata pubblicata un’indagine realizzata da alcuni ricercatori su vari studi che in diversi paesi si sono occupati negli ultimi anni di questo specifico tema. L’obiettivo era studiare le conseguenze fisiche e mentali di tali abusi: «I nostri risultati suggeriscono che le vittime di violenza domestica (IPV) sono comuni tra le coppie gay», c’è scritto nelle conclusioni. In particolare, «la violenza domestica (IPV) tra gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini è un problema significativo». Le percentuali vanno dal 15 al 51 per cento. Altri studi non inclusi nella ricerca comparata parlano di percentuali che vanno dal 25 al 50 per cento, altri ancora arrivano a parlare di percentuali maggiori dicendo che la violenza è in proporzione più alta nelle coppie omosessuali che in quelle eterosessuali. Una ricerca del 2014 della Northwestern University di Chicago dice che tra il 25 per cento e il 75 per cento di gay, lesbiche e bisessuali è vittima di violenze domestiche, contro il 22 per cento delle donne e il 7 per cento degli uomini.

La prima piccola ricerca di questo tipo in Italia è stata realizzata da Arcilesbica Roma nel 2011 su un campione di 102 donne omosessuali nel Lazio: in più di un caso su cinque (20,6 per cento) l’intervistata ha ammesso di avere paura del ritorno a casa della propria partner. In caso di violenza, il 70,6 per cento delle donne intervistate ha detto che chiederebbe aiuto in prevalenza ad amici (29,4 per cento) e ad associazioni (14,7 per cento). La percentuale di donne che non hanno saputo indicare nessun soggetto a cui rivolgersi è del 32,4 per cento; 27 donne su 102 hanno invece risposto che non chiederebbero aiuto; il 76,5 per cento di loro non ha indicato alcun motivo per giustificare questa mancanza di richiesta; l’11,8 per cento ha indicato invece come motivo la riservatezza, il 5,9 per cento l’umiliazione e il disagio.