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  • Giovedì 7 aprile 2016

Homs è ancora una città distrutta

Com'è la vita nella città che fu al centro della rivoluzione siriana: i ribelli l'hanno abbandonata, ma il centro è ancora in macerie e i vecchi abitanti hanno paura a tornare

di Loveday Morris – The Washington Post

Due persone camminano vicino a degli edifici distrutti a Hamidiya, il quartiere cristiano di Homs (Lorenzo Tugnoli/For The Washington Post)
Due persone camminano vicino a degli edifici distrutti a Hamidiya, il quartiere cristiano di Homs (Lorenzo Tugnoli/For The Washington Post)

A Homs, la città siriana che in passato fu definita come la capitale della rivoluzione, gli edifici devastati dalla guerra ospitano ancora i fantasmi dei ribelli che hanno combattuto nella città. In uno di questi edifici, sopra un colorificio distrutto, i combattenti hanno scarabocchiato i loro nomi – Abu Omar, Abu Ratib, Abu Shari – lasciando un segno del loro passaggio prima di arrendersi e consegnare quasi due anni fa questo e altri quartieri della zona alle meglio armate forze governative, dopo essere stati ridotti alla fame.

«Portatemi un gelato e datemi da mangiare», ha scritto uno dei combattenti vicino al disegno di una bandiera a tre stelle diventata il simbolo della rivoluzione siriana, fatto con un pennarello nero. Al piano di sotto ci sono i buchi che i combattenti hanno ricavato sui muri per potersi spostare da casa a casa senza finire nel mirino dei cecchini. I ribelli hanno abbandonato da tempo la città vecchia di Homs, in cui furono assediati: gli ultimi duemila sono scappati dopo il raggiungimento di un accordo mediato dall’ONU e concluso a maggio del 2014. Ma la maggior parte delle famiglie che in passato vivevano qui non sono ancora tornate. L’unico suono che si sente per le strade distrutte è quello della devastazione in lontananza. Il vuoto nel cuore di Homs, una città che in passato aveva più di un milione di abitanti, testimonia quanto sia difficile il compito di ripopolare e ricostruire le città siriane. Secondo le stime della Banca Mondiale sarebbero necessari oltre 170 miliardi di dollari e uno sforzo internazionale simile a quello del Piano Marshall, che contribuì alla ripresa dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale.

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Un ragazzo gioca a calcio davanti a una casa distrutta nel quartiere cristiano di Hamidiya, il 16 marzo 2016 (Lorenzo Tugnoli/The Washington Post)

La guerra ha distrutto ospedali, migliaia di scuole, un terzo delle case del paese, e continua a costringere i cittadini siriani ad abbandonare le proprie case. L’Europa, che fatica a fermare le ondate di migranti dalla Siria, di recente ha raggiunto un accordo per rimandare i nuovi arrivati in Turchia. Nel frattempo anche in grandi aree come Homs – che negli ultimi anni ha mantenuto una certa stabilità – la mancanza dei soldi per la ricostruzione e di una soluzione politica alla crisi siriana continua a impedire alle famiglie di tornare a casa. Molte persone hanno troppa paura, e più le distese di macerie rimarranno al loro posto più i vecchi abitanti della città si convinceranno a continuare a vivere altrove.

«Le persone ormai si sono rifatte una vita lontano da Homs», ha detto Ziad Akras, 43 anni, membro di un comitato di zona per la ricostruzione del quartiere cristiano che si chiama Bab al Dreib. «I figli di queste persone vanno a scuola e loro potrebbero avere trovato un lavoro. Non torneranno». Nei quartieri cristiani come Bab al Dreib, i cui abitanti erano più favorevoli al regime di Assad, alcune famiglie sono tornate. I fedeli delle chiese andate distrutte hanno raccolto dei soldi per la ricostruzione e hanno aiutato economicamente le famiglie che volevano tornare. L’elettricità e l’acqua sono state ripristinate ma le strade sono ancora vuote e spettrali.

homs 3Alcune case distrutte a Hamidiya (Lorenzo Tugnoli/The Washington Post)

Milad Jamal, 36 anni, ha riaperto il suo ristorante, ma dice che il locale, che una volta era un riferimento per la comunità locale, oggi è l’ombra di sé stesso. «È la nostra città: per questo siamo tornati», ha raccontato Jamal, la cui famiglia è una delle circa 4.000 – delle 40.000 totali nella zona – tornate nel quartiere. «Siamo stati gli ultimi a chiudere e i primi a riaprire», ha detto Jamal, che ha pagato di tasca sua per ricostruire il suo locale, mentre la chiesa contribuiva alla ricostruzione della sua casa. Non lontano dal ristorante di Jamal c’è un parco che è stato usato come un cimitero di fortuna nel periodo in cui la zona era nelle mani dei ribelli. I cadaveri sono stati esumati e il governo li ha rimossi. Akras dice che ne sono stati trovati circa 500.

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Milad Jamal nel suo ristorante a Hamidiya (Lorenzo Tugnoli/The Washington Post)

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Il ristorante Bustan al-Diwan (Lorenzo Tugnoli/The Washington Post)

La vecchia torre dell’orologio della città, uno dei centri delle proteste, è stata restaurata e il governo l’ha rimessa in funzione un anno fa con una cerimonia pubblica, nell’anniversario della fine dell’assedio. Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha contribuito a liberare la vicina zona del mercato centrale da 70.000 tonnellate di detriti e sta incoraggiando le imprese a tornare. Ma nelle altre zone della città vecchia – che sono state assediate e bombardate per tre anni –  ci sono pochi segni di vita. La distruzione è stata più violenta nelle aree a maggioranza sunnita, vicine ai ribelli, e ha reso la ricostruzione molto difficile, nonostante ci fosse la volontà politica.

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L’interno di una casa danneggiata a Hamidiya. (Lorenzo Tugnoli/The Washington Post)

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Una casa danneggiata a Hamidiya. (Lorenzo Tugnoli/The Washington Post)

Il quartiere a maggioranza sunnita di Khalidiya, dove si trova la casa con i graffiti dei combattenti, è una delle zone più danneggiate dai combattimenti in città. I tetti e le facciate degli edifici sono divelti, e le impalcature attorno la cupola della moschea Khalid ibn al-Walid, restaurata di recente, sono l’unico segno della ricostruzione. Secondo un soldato a un checkpoint dell’esercito – che però non sembrava essere molto convinto – ci sarebbero 20 famiglie nelle aree distrutte. L’acqua e l’elettricità non sono state ripristinate. «Da dove si comincia?», si è chiesto Jihad Yazigi, direttore di Syria Report, un giornale online specializzato in economia siriana. «Non c’è ricostruzione su larga scala perché non c’è stata una riconciliazione significativa, perché mancano i soldi, c’è incertezza e manca la volontà politica».

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Secondo Yazigi perché la ricostruzione avvenga servirà un ampio programma internazionale, che sarà possibile solo una volta finita la guerra. Jamal, il proprietario del ristorante, ce l’ha con gli abitanti del quartiere che non sono tornati. «Il governo vuole davvero ricostruire la città», ha detto Jamal, «chi ha fatto qualcosa di sbagliato avrà sempre paura». Ma anche se volessero tornare, gli ex abitanti della zona non troverebbero molto. «Le persone hanno bisogno di garanzie», ha detto Yazigi, «anche se sapessero di non essere nella lista delle persone da tenere sotto osservazione al confine, si sentirebbero comunque in pericolo a tornare».

Secondo Samuel Rizk, il direttore per la Siria di UNDP, la portata del compito è «immane» ed è necessario trovare una soluzione politica prima che possa partire qualsiasi progetto su larga scala. Per il momento lo UNDP si sta concentrando su operazioni su piccola scala, finalizzate a creare opportunità per il sostentamento e la ripresa economica, nella speranza di fermare il flusso di migranti verso l’Europa. «Molte persone lasciano il paese per ragioni di sicurezza», ha detto Rizk, «ma molte altre se ne vanno per ragioni di opportunità». Homs rimane comunque una città in grande tensione. L’anno scorso tre autobombe esplose nel quartiere di Zahra hanno ucciso decine di persone. L’accordo del 2014 ha permesso ad alcuni ribelli di restare nel quartiere di al Waer, dove a dicembre è stata concordata una tregua per permetter loro di partire. «Stanno tutti attenti. Abbiamo la sensazione che potremmo avere una cattiva sorpresa in qualsiasi momento», ha detto Jamal. «È casa nostra, ma qui non siamo ancora tranquilli».

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