Cosa dice l’editoriale di Charlie Hebdo di cui si parla da giorni

Si chiede se il terrorismo non sia in qualche modo conseguenza dell'aver rinunciato a criticare le religioni, Islam compreso, per paura di essere definiti "razzisti"

La copertina di Charlie Hebdo del 30 marzo 2016
La copertina di Charlie Hebdo del 30 marzo 2016

Da qualche giorno si è tornati a discutere di Charlie Hebdo, giornale satirico francese la cui redazione fu attaccata da alcuni terroristi islamisti nel gennaio del 2015. Otto giorni dopo gli attacchi di Bruxelles, su Charlie Hebdo è stato pubblicato un editoriale in cui ci si chiede se l’aver rinunciato a criticare e a mettere in discussione le religioni, compreso l’Islam, per paura di essere definiti “islamofobi” o “razzisti”, non abbia in qualche modo contribuito a creare il clima che ha reso possibili gli attentati terroristici degli ultimi mesi in Francia e Belgio. Il terrorismo, insomma, accade anche perché la libertà di parola è stata in qualche modo frenata e perché il silenzio ha preso il posto del pensiero critico.

L’editoriale
L’editoriale di cui si discute è stato pubblicato nel numero di Charlie Hebdo del 30 marzo e si intitola, nella sua versione inglese, How did we end up here? (“Come siamo arrivati a questo punto?”). L’editoriale inizia con un elenco delle cause degli attacchi di Bruxelles indicate dagli “specialisti”: l’incompetenza della polizia belga, la disoccupazione giovanile, l’isolamento degli immigrati in certi quartieri di Bruxelles. «Le cause sono molteplici e ognuno sceglie quella che più gli si addice in base alle proprie convinzioni». In realtà, prosegue l’editoriale, «gli attacchi sono la punta di un grande iceberg. Sono la fase finale di un processo di intimidazione e silenzio cominciato molto tempo fa» che ci ha reso incapaci di parlare e di criticare apertamente l’Islam.

L’editoriale fa diversi esempi. Il primo riguarda Tariq Ramadan, un intellettuale, scrittore e professore che si occupa di Islam, che è musulmano e che la scorsa settimana ha parlato all’Istituto di studi politici di Parigi conosciuto come Sciences Po, una prestigiosa università francese. Charlie Hebdo dice che Tariq Ramadan «non fa nulla di sbagliato»: insegna l’Islam, scrive di Islam, «si propone come un uomo del dialogo» aperto al dibattito sulla laicità che, secondo lui, «ha bisogno di adattarsi al nuovo posto che la religione ha occupato nelle democrazie occidentali» che devono dunque accettare anche le tradizioni dalle minoranze che accolgono. Il compito di Ramadan, dice l’editoriale, è quello di dissuadere le persone a criticare l’Islam: «Gli studenti di scienze politiche che lo ascoltavano la scorsa settimana, una volta diventati giornalisti o funzionari locali, non avranno il coraggio di scrivere o dire nulla di negativo sull’Islam. La piccola incrinatura della loro laicità che è stata fatta quel giorno porterà il frutto di una futura paura a criticare per non apparire islamofobi»:

Tariq Ramadan non prenderà mai in mano un Kalashnikov per sparare a un giornalista. Non preparerà mai una bomba per attaccare un aeroporto. Altri faranno quelle cose. Non è il suo ruolo. Il suo lavoro, presentato come dibattito, è quello di dissuadere le persone dal criticare la sua religione in ogni modo.

L’editoriale suggerisce poi di prendere come esempi una donna con il velo e un panettiere musulmano: «Perché preoccuparsi di loro?». Nell’indossare il velo e nel non servire panini con il prosciutto, nessuno dei due sta facendo qualcosa di sbagliato. La donna è improbabile che nasconda una bomba sotto il suo burqa come alcune persone hanno sostenuto quando in Francia era in discussione la legge per vietarlo: perché allora chiederle di non vestirsi come vuole? Il fornaio con la barba lunga non infastidisce nessuno, è integrato e ben voluto dalla comunità: perché cambiare fornaio anche se non serve panini con il prosciutto? «Sarebbe sciocco continuare a lamentarsi o gridare allo scandalo. Ci si abitua abbastanza facilmente. Come Tariq Ramadan ci insegna, ci adattiamo».

Charlie Hebdo arriva infine a parlare degli attentatori di Bruxelles. Fino al momento di farsi esplodere all’aeroporto e alla stazione, non avevano fatto niente di male, dice l’editoriale: conoscevano poco la storia della loro religione, il colonialismo, o le tradizioni del paese dei loro antenati. Hanno chiamato un taxi per l’aeroporto di Bruxelles «e ancora, in quel preciso momento, nessuno di loro aveva fatto qualcosa di male. Non Tariq Ramadan, né le donne con il burqa, non il fornaio e neppure questi giovani». Eppure, «niente di quello che stava per accadere all’aeroporto o alla metropolitana di Bruxelles poteva davvero succedere senza il contributo di tutti». Senza cioè il clima che si è venuto a creare per cui tutti rinunciano a parlare dell’Islam e dei suoi problemi per paura di far nascere delle controversie ed essere accusati di islamofobia. Le due cose, sostiene Charlie Hebdo, sono direttamente collegate.

L’editoriale si conclude spiegando che il terrorismo è solo la parte conclusiva di un processo già iniziato, che impone di non parlare, di non contraddire e di evitare il dibattito, che recita «tenete a freno le vostre lingue, vivi o morti. Rinunciate a discutere o a contestare». Ma, si chiede Charlie Hebdo, «come diavolo siamo arrivati a questo punto? Come diavolo ho fatto a finire a dover girare per la strada tutto il giorno con un velo sulla testa? Come diavolo sono finito a dover pregare cinque volte al giorno? Come diavolo sono finito nella parte posteriore di un taxi con tre zaini pieni di esplosivo?».

Le critiche
Subito dopo la pubblicazione, l’editoriale è stato molto criticato. Per il fatto che i musulmani osservanti vengano descritti come corresponsabili del terrorismo, innanzitutto. Alcune di queste critiche sono state riportate dal Guardian: Shadi Hamid, studioso di scienze politiche, ha descritto l’editoriale come “bigotto” e “pigro”. Altri hanno spiegato che Charlie Hebdo non sta facendo satira sull’Islam, ma lo sta semplicemente demonizzando, altri ancora hanno paragonato i toni dell’editoriale a quelli usati contro gli ebrei prima della Seconda guerra mondiale. Lo scrittore Teju Cole, che già in passato aveva criticato il tono delle pubblicazioni di Charlie Hebdo, ha paragonato la retorica dell’editoriale a quella di Donald Trump e dei nazisti.

In pochi, in sostanza, ci hanno visto una vera difesa dei valori democratici. Nesrine Malik, scrittrice e commentatrice di origine sudanese che vive a Londra, sempre sul Guardian, ha scritto che per Charlie Hebdo non esiste, in pratica, un musulmano innocente. Tutto questo, scrive Malik, «non ha a che fare con la libertà di espressione. Ha a che fare con una licenza. La licenza a sospendere l’intelligenza, il giudizio obbiettivo e tutte le altre facoltà che frenano la rabbia, la confusione e il pregiudizio dall’essere lanciate contro un obbiettivo». Scott Timberg, su Salon, ha scritto che la cosa peggiore dell’editoriale di Charlie Hebdo è che usa la difesa dei valori democratici di cui la libertà di espressione fa parte per una rabbiosa argomentazione antireligiosa.