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  • Venerdì 1 aprile 2016

Perché l’assoluzione di Vojislav Šešelj è un errore

Lo spiega un giornalista che intervistò l'ex nazionalista serbo durante la guerra in ex Jugoslavia, dopo che il tribunale dell'Aia lo ha dichiarato non colpevole di crimini di guerra

di Marc Champion - Bloomberg

Il nazionalista serbo Vojislav Šešelj durante una conferenza stampa a Belgrado dopo l'assoluzione da parte del Tribunale penale internazionale dell'ex Jugoslavia, il 31 marzo 2016 (ALEXA STANKOVIC/AFP/Getty Images)
Il nazionalista serbo Vojislav Šešelj durante una conferenza stampa a Belgrado dopo l'assoluzione da parte del Tribunale penale internazionale dell'ex Jugoslavia, il 31 marzo 2016 (ALEXA STANKOVIC/AFP/Getty Images)

Il Tribunale penale internazionale dell’Aia ha assolto da tutti i capi di accusa Vojislav Šešelj, il nazionalista serbo a cui facevano riferimento i volontari che contribuirono a dare inizio alla guerra in Croazia nel 1991. Il verdetto di non colpevolezza non è sconvolgente o necessariamente sbagliato: lo sono le motivazioni del tribunale, che contraddicono gran parte di quanto ci ha insegnato sulla guerra negli ultimi vent’anni.

Il verdetto è arrivato a soli due giorni dalla sentenza del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia delle Nazioni Unite (ICTY) che ha condannato a quarant’anni di carcere l’ex presidente della Repubblica Serba di Bosnia, Radovan Karadžić, per aver commesso crimini di guerra nel tentativo di realizzare il progetto della Grande Serbia, epurando il territorio dalle popolazioni di origine non serba. La grande differenza tra i due è che Karadžić occupava una posizione di leadership e responsabilità: aveva chiaramente a disposizione una catena di comando attraverso la quale far eseguire i suoi ordini. Šešelj, invece, era un membro del parlamento serbo che mandava dei volontari a combattere al fronte, e la sua posizione sarebbe delineata in maniera meno netta.

L’accusa potrebbe anche non essere riuscita a provare la responsabilità diretta di Šešelj per i crimini di guerra compiuti dai suoi combattenti. Ma la maggioranza dei giudici della corte dell’Aia è andata ben oltre, sostenendo che l’accusa non sia riuscita a dimostrare che i reati compiuti da Šešelj fossero davvero reati. Il progetto di Šešelj di creare una Grande Serbia era di natura politica, ha stabilito la sentenza, e le violenze si sarebbero svolte nel contesto della secessione di Croazia e Bosnia dalla Jugoslavia: Šešelj, quindi, potrebbe anche aver creduto di difendere la Jugoslavia e di proteggere i civili serbi, il che sarebbe legittimo. I giudici hanno detto di non poter escludere che quando Šešelj parlava al fronte incoraggiando i combattenti a eliminare i croati dai territori della Grande Serbia, le sue parole non «avessero l’obiettivo di alzare il morale delle sue truppe, piuttosto che incitarli a non risparmiare nessuno». Ma le cose non sono andate così.

Dopo aver raccontato le prime settimane di combattimenti dalla Croazia orientale nel luglio del 1991, andai a parlare con Šešelj. In entrambi gli schieramenti, diverse persone nei villaggi che costeggiano la riva occidentale del Danubio – nella zona in cui il fiume forma il confine tra Croazia e Serbia – mi dissero che le uccisioni erano iniziate quando «gli uomini di Šešelj» penetrarono oltre il fiume per armare i serbi del posto e combattere con loro. Si potevano riconoscere grazie alle loro barbe e le uniformi simili a costumi. Quando riuscii a parlarci, anche Šešelj fu di una franchezza disarmante:

Sul muro sopra la sua scrivania nel suo ufficio di Belgrado Šešelj ha appeso il simbolo del movimento nazionalista dei cetnici, di cui è il capo: una bandiera con un teschio e le ossa incrociate su sfondo nero, con la scritta “Liberi o Morti”. La cruda semplicità del simbolo dei cetnici ben si addice alla figura di Šešelj, che sembra aver fatto proprio questo tipo di linguaggio: “Non vogliamo nessun altro sul nostro territorio e combatteremo per i nostri veri confini. I croati se ne devono andare o moriranno”, mi disse.

Šešelj mi spiegò altrettanto chiaramente che non stava cercando di difendere la Jugoslavia, come invece sosteneva all’epoca il presidente serbo Slobodan Milošević:

«Non siamo contro alla Jugoslavia», disse Šešelj, «Non vogliamo vivere nello stesso paese dei croati». Secondo Šešelj, la Slovenia dovrebbe poter essere indipendente, come la Croazia, entro un certo limite. Prima di essere liberata, però, la Croazia dovrebbe amputarsi il braccio rappresentato dal territorio che si estende a sud lungo la costa della Dalmazia, dalla Slavonia, la sua spalla orientale, e da parte del centro: tutto ciò che si trova a sud e a est del nuovo confine croato diventerebbe parte della Grande Serbia».

Allo stesso modo gli albanesi del Kosovo, che costituiscono il 90 per cento della popolazione locale, erano considerati «ospiti»: sarebbero dovuti diventare fedeli sudditi serbi o andarsene. La Macedonia era un paese costruito artificialmente, come la Bosnia. Il Montenegro invece era semplicemente parte della Serbia. Tutti insieme formavano la Grande Serbia.

Il fatto che volesse creare la Grande Serbia, come il tribunale penale internazionale ha giustamente sottolineato, non fa di Šešelj un criminale; così come il fatto di voler creare un califfato non fa dello Stato Islamico un gruppo di terroristi. Il Regno Unito e altri paesi hanno fatto di tutto per arrestare predicatori come Abu Hamza, che facevano proseliti per al Qaida senza però reclutare direttamente i loro seguaci per spingerli a uccidere gli inglesi infedeli. Per quanto vili e pericolose, queste persone non hanno commesso nessun reato. Šešelj invece ha reclutato dei combattenti e li ha incitati in pubblico a uccidere croati e musulmani bosniaci, che in pubblico definiva rispettivamente anche come fascisti ed «escrementi».

È difficile giustificare la tesi secondo cui il progetto di Šešelj di una Grande Serbia non richiedesse per forza una pulizia etnica, o che forse non era questo che intendeva quando diceva che i croati avrebbero dovuto andarsene o morire, o ancora che i pullman usati per portare via i civili croati dai villaggi rivendicati dalla Grande Serbia avrebbero potuto avere un fine «umanitario», come sostiene il tribunale. Šešelj provava gusto nell’essere inflessibile. I pullman erano stati usati per fare pulizia etnica. La persona che i suoi volontari definivano come il comandante in capo aveva perlomeno il dovere di ordinare ai suoi uomini di risparmiare i civili, anche quando li spingeva a combattere contro i soldati croati.

Convido l’opinione del giudice Lattanzi, il membro del tribunale contrario alla sentenza, finito in minoranza: «Per poter assolvere Šešelj la maggioranza non ha tenuto conto di tutte le norme del diritto umanitario internazionale che esistono da prima della creazione del tribunale, e di tutte le leggi vigenti varate da quando è stato istituito. Alla lettura della decisione della maggioranza ho avuto la sensazione di essere tornato indietro di centinaia di anni, quando i romani giustificavano le loro sanguinose conquiste o gli assassinii dei loro rivali politici sostenendo che silent enim leges inter arma (“in tempo di guerra, le leggi tacciono”, una frase del Pro Milone di Cicerone)». Ma contrariamente a quanto lasciato intendere dalla maggioranza dei giudici del tribunale dell’Aia, in guerra non funziona così. Sicuramente non è stato così per Karadžić e gli altri 79 tra serbi, croati e musulmani bosniaci che il tribunale ha condannato da quando è stato istituito nel 1993. Dire ai propri combattenti di espellere un gruppo etnico da un territorio, come poi è stato fatto, non dovrebbe poter rientrare tra le pratiche consentite in guerra.

© 2016 – Bloomberg