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  • Giovedì 31 marzo 2016

8 cose su Imre Kertész

Lo scrittore ungherese è morto oggi a 86 anni: vinse il Nobel per "Essere senza destino", sulla vita di un ragazzino nei campi di concentramento nazisti

Imre Kertész a Budapest nel 2006
(AP Photo/MTI, Peter Kollanyi)
Imre Kertész a Budapest nel 2006 (AP Photo/MTI, Peter Kollanyi)

Lo scrittore ungherese Imre Kertész è morto giovedì 31 marzo, a 86 anni. Kertész è famoso soprattutto per il romanzo Essere senza destino (Sorstalanság), del 1975, che racconta in prima persona la vita di un ragazzino ungherese nei campi di concentramento nazisti di Auschwitz, Buchenwald e Zeitz. Il libro – che Kertész impiegò 13 anni a scrivere – riflette in parte la storia di Kertész: nato a Budapest nel 1929 in una famiglia ebraica – a 14 anni venne deportato nei campi di concentramento di Auschwitz e poi di Buchenwald, dove venne liberato dagli Alleati nel 1945. Kertész ha però sottolineato più volte che non si tratta di un testo autobiografico.

Essere senza destino è considerato uno dei libri fondamentali sull’Olocausto ma in Ungheria venne dapprima rifiutato dagli editori e poi pubblicato senza molto successo, che arrivò invece negli anni Novanta quando il libro uscì in Germania. Nel 2002 contribuì a fargli vincere il premio Nobel per la Letteratura. Nel 2005 ne fu tratto un film di Lajos Koltai, Senza destino, di cui Kertész ha curato la sceneggiatura.

Altri suoi libri famosi sono Fiasco, Kaddish per il bambino non nato, Il vessillo britannico e Il secolo infelice.

Di seguito, otto cose che Imre Kértesz raccontò sulla scrittura, su come nacque il suo libro più famoso, sul suicidio e sulla nausea di vivere sotto il totalitarismo.

Il segreto
Kértesz diceva che gli scrittori non dovrebbero mai parlare di se stessi. Chi scrive dovrebbe vivere in un posto segreto e non dovrebbe mai rispondere alle domande sul perché, dove e come si scrive. Però poi, con un po’ di ritrosia, rispondeva lo stesso.

Il diario
Da bambino Imre Kertész non aveva manifestato particolare propensione verso la scrittura e la sua non era una famiglia di intellettuali. Nessuno scriveva. Ma quando aveva sei anni, i suoi genitori gli chiesero che cosa desiderasse in regalo. D’istinto, senza sapere perché, Kértesz rispose: «Un diario». Era un diario così bello che non voleva sporcarlo. In un’intervista alla Paris Review of Books, ha raccontato che quando finalmente si decise a scriverci sopra qualcosa, odiò a tal punto quello che aveva scritto da impegnarsi allo spasimo per scriverci cose più belle. Era convinto che si diventa scrittori editando – cioè cercando di migliorare – quello che si scrive.

Auschwitz
Come la stragrande maggioranza dei superstiti dei campi di concentramento, Kértesz non tornò da Auschwitz con l’intenzione di scriverne. Aveva 16 anni e c’era stato un anno, senza rendersi conto di avere vissuto l’evento che avrebbe cambiato la sua vita e che in seguito avrebbe considerato il prezzo da lui pagato per diventare scrittore. Per scrivere Essere senza destino, il suo primo e più famoso romanzo, impiegò 13 anni, molti dei quali però passarono senza scrivere, solo per trovare una voce. Sapeva solo di volere scrivere un romanzo e che gli interessava raccontare, non soltanto la violenza del nazismo, ma anche il clima oppressivo dell’Ungheria sotto Stalin.

Operette
Imre Kértesz capì di essere uno scrittore per strada, all’improvviso, quando aveva 24 anni. Il problema è che non aveva ancora scritto niente, se non appunti, prove, cose che non lo soddisfacevano. Poi, un giorno, un amico lo venne a trovare nella camera di 28 metri quadri in cui Kértesz abitava con la moglie. Vedendo come se la passavano, l’amico gli propose di provare a scrivere insieme libretti da operetta. Kértesz all’inizio rifiutò, non ne sapeva nulla di operette, ma poi acconsentì perché pensava di essere bravo a scrivere i dialoghi.

La prima frase
Kértesz ha raccontato alla Paris Review of Books che Essere senza destino nacque nel periodo in cui scriveva testi di operetta con il suo amico. Una sera in testa gli balenò una frase. Purtroppo non si è mai più ricordato quale, ma era qualcosa di semplice, del tipo: «Mi piacciono di più le rape che le carote». La cosa importante, per lui, fu che quella frase era l’inizio di un metodo, perché era una voce, e quindi c’era qualcuno che l’aveva pronunciata.

Perché il protagonista di Essere senza destino è un bambino
«Perché nelle dittature ogni uomo è trattato come un bambino e tenuto in uno stato di ignoranza e bisogno». A differenza di altri scrittori che hanno raccontato i campi di concentramento attraverso gli occhi di un bambino, Kértesz pensava che per essere credibili non fosse sufficiente cercare di parlare con la voce di un bambino, ma bisognasse essere particolarmente attenti al modo con cui i bambini concepiscono il tempo e mettono in ordine gli eventi. Quando un bambino racconta, racconta tutto. Kéresz diceva che un bambino non si concentra sulle cose importanti o spettacolari, ma anche su quelle minime, perché le considera altrettanto importanti di quelle grandi.

La nausea quotidiana
Nel suo discorso di accettazione per il Nobel della letteratura, Kéresz disse: «La nausea e la depressione con cui mi sveglio ogni mattina mi rispediscono ogni volta nel mondo che voglio descrivere». Il senso costante di estraneità accomunava nazismo e stalinismo. La differenza, diceva Kértesz, era che sotto lo stalinismo bisognava tirare avanti, mentre il nazionalismo era così efficiente e veloce che tirare avanti significava solo sopravvivere.

Il suicidio
«Per quelli tra di noi che furono abbastanza coraggiosi da guardare giù nell’abisso – Borowski, Shalamov, Améry – be’, non ce ne sono poi tanti di noi», ma nell’elenco ci dovrebbe stare anche Primo Levi ovviamente, «scrivere fu sempre un preludio al suicidio. La pistola di Jean Améry era sempre presente, sempre al suo fianco, tanto nei suoi articoli come nella sua vita. Io sono qualcuno che è sopravvissuto a tutto questo, qualcuno che ha visto la testa della Gorgone e che però ha conservato abbastanza forza da terminare un lavoro che parla con le persone usando un linguaggio che è umano».