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  • Lunedì 28 marzo 2016

È lecito “incoraggiare” una foto?

È un dibattito vecchio ma di cui si è tornati a parlare dopo che un giovane fotogiornalista è stato "beccato" a ricreare artificialmente una foto emozionante a Bruxelles

Nei giorni successivi agli attentati di Bruxelles, una fotografia scattata da un giovane fotogiornalista palestinese ha riacceso un dibattito vecchio sull’etica della fotografia nel mondo dell’informazione. Il punto centrale della discussione è: quanto è diffusa e tollerata la pratica di “inscenare” o incoraggiare una data situazione per poi fotografarla?

La foto in questione è stata scattata da Khaled Al Sabbah, un 21enne palestinese che vive a Bruxelles ma che si occupa spesso del conflitto israelo-palestinese (una foto scattata a Gaza nel 2015 gli ha fatto vincere il primo premio al concorso internazionale di fotografia Hamdan International Photography Award). La foto mostra una bambina che lascia un orsetto di peluche davanti a un memoriale improvvisato a Bruxelles, il giorno dopo gli attentati. Mercoledì  Al Sabbah ha pubblicato la foto sul suo profilo Instagram senza spiegarne le circostanze esatte. Il guaio è che nel frattempo era uscito un video che mostrava che Al Sabbath aveva spiegato esattamente alla bambina della foto in che posizione mettersi.

instagram

https://www.youtube.com/watch?v=aDlRF_xiBCk

Dopo che il video è iniziato a circolare, Al Sabbah ha cancellato la foto da Instagram e ha pubblicato un comunicato in cui ha spiegato che il suo obiettivo era quello di «scattare una foto estetica per mostrare solidarietà verso i bambini, niente di più e niente di meno, una foto che mostrasse il lato umano [della vicenda]» (dopo la polemica, Al Sabbah ha anche cambiato la descrizione del suo profilo su Instagram, da “fotogiornalista” a “fotografo”).

Dopo aver visto il video che mostra Al Sabbah dare indicazioni alla bambina, l’ex fotogiornalista del New York Times Michael Kamber ha detto al Guardian: «è uno di quei casi in cui un fotografo fa una cosa che rovina la fiducia del pubblico nei media». Condannare episodi del genere e pensare che siano isolati verrebbe spontaneo: il fenomeno però potrebbe essere più esteso di quanto si possa immaginare. Lens, il famoso blog di fotogiornalismo del New York Times, ha scritto che nel 2015 ai partecipanti del World Press Photo – il più importante concorso di fotogiornalismo al mondo – fu chiesto di compilare un questionario online di 63 domande sul proprio metodo del lavoro. Al questionario risposero 1.549 fotografi, poco meno di un terzo del totale (circa metà erano europei). Alla domanda «quanto spesso “insceni” la tue foto?» il 51,8 per cento dei fotografi rispose “qualche volta”, mentre il 7,2 per cento rispose “circa la metà delle volte”. Sono numeri molto alti, ma che combaciano con gli aneddoti di esperti fotogiornalisti. Marcus Bleasdale, un fotogiornalista britannico che ha vinto per due volte il World Press Photo, ha detto: «è una cosa che vedo ovunque, purtroppo. In Congo, nella Repubblica Centrafricana, lo fanno dei fotografi molto conosciuti e rispettati nel loro campo».

Alcuni esempi sono eclatanti ed estremi, tanto quando la vicenda di Al Sabbah. Kamber ha raccontato al Guardian che quando si trovava in Liberia per lavoro vide un fotografo francese dare istruzioni a dei bambini-soldato per far sembrare che lottassero fra di loro: «parliamo di foto famose, finite sulle prime pagine di tutto il mondo. Vedendola, potresti pensare che sia stata scattata durante un combattimento: ma quello era un giorno totalmente tranquillo e senza battaglie». Un altro giorno, racconta Kemper, un altro fotografo ancora iniziò un coro di protesta fra alcuni manifestanti a Monrovia, la capitale della Liberia. Solo dopo aver aizzato la folla, il fotografo iniziò a scattare foto. La pratica di “creare” una foto spacciandola per spontanea, ovviamente, non è nata negli ultimi anni ed esistono vari esempi di famose foto “classiche” scattate in queste circostanze: come ad esempio la foto del “bacio Hôtel de Ville” scattata dal celebre fotografo francese Robert Doisneau. La fotografia divenne famosissima, ma si scoprì solo in seguito che le circostanze in cui era stata scattata non erano state “spontanee”. Nel 1950 Doisneau si trovava a Parigi per fare un servizio per conto della rivista di fotografia LIFE sulle coppie della città: Doisneau vide per strada i due protagonisti che si baciavano e gli propose di rifarlo in altri posti. Doisneau scattò fotografie simili in tre zone diverse di Parigi, e la versione finale e diventata celebre è solamente una di queste.

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Altri casi sono più sottili, come ad esempio chiedere a un manifestante di rifare una certa azione eclatante perché il fotografo se l’è persa – tanto l’avrebbe fatto comunque, si potrebbe argomentare. Oppure spostare in una zona più conveniente un certo oggetto, per far scattare una foto “simbolica” o solamente migliore: come ha fatto notare il blog Photopreneur, «se c’è una foto-di-guerra così inflazionata da essere diventata un cliché, è quella di un giocattolo opportunamente mostrato in cima a una pila di macerie distrutte da un bombardamento – un giocattolo che sempre, come per miracolo, sembra avere evitato il contatto con la polvere o i detriti attorno».

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Una delle foto portate a esempio da Photopreneur, scattata a Tiro, nel Libano, durante la guerra con Israele del 2006 (AP Photo/Ben Curtis)

In un articolo intitolato «Inscenare una foto non è Fotogiornalismo (anche se ha a che fare con la Fotografia)», il magazine di fotografia Shutterbug ha scritto che in realtà qualcuno potrebbe teorizzare che la maggior parte delle foto non è spontanea in ogni caso, e che comunque non tutte le foto “inscenate” sono brutte foto. Il fotografo e fotogiornalista David Weber, inoltre, ha raccontato al New York Times di avere una posizione molto sfumata sul tema, facendo intuire che basterebbe segnalare il “contesto” di ciascuna foto. Sostiene Weber:

Non può esistere un’unica maniera di fare le cose, e un codice etico non dovrebbe ostacolare gli obiettivi della fotografia. Invece, dovrebbe liberare ciascuna storia da sciocchi confini e aiutare i fotogiornalisti a raggiungere il loro pubblico. Come si fa? Per me è semplice. È la storia che impone il modo in cui vuole essere raccontata, non le aziende, i concorsi o i media. Se una storia vuole essere raccontata come una serie di ritratti, va bene. Se vuole essere raccontata in forma di foto “inscenate”, va bene uguale. Se dev’essere un reportage, che sia così. Il punto è che la forma è decisamente irrilevante. Quello che è rilevante, invece, è il modo che l’autore sceglie di rivolgersi al suo pubblico.

Secondo Kamber, però, esiste una ragione ben precisa per la diffusione di foto “inscenate”: il fatto che le agenzie fotografiche assumano sempre meno, e che quindi diversi fotogiornalisti siano costretti a lavorare da freelance. Kamber ha detto che fino a quindici anni fa se un fotogiornalista passava un giorno intero senza buone foto riceveva comunque uno stipendio: «oggi, se sei un freelance e se non hai a disposizione una foto spettacolare non vendi, e non vieni pagato. Questo mette un’enorme pressione, e credo stia causando un numero sempre maggiore di foto falsificate».

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