• Moda
  • Martedì 22 marzo 2016

Le buone azioni di Lush

Non si limita a produrre saponi e cosmetici con ingredienti equo solidali: finanzia campagne in tutto il mondo a sostegno dell'ambiente e per i diritti delle persone LGBT

Bombe da bagno di Lush, l'azienda inglese di prodotti per la cura e la pulizia del corpo, il 9 gennaio 2008, e Cincinnati, negli Stati Uniti (AP Photo/Al Behrman)
Bombe da bagno di Lush, l'azienda inglese di prodotti per la cura e la pulizia del corpo, il 9 gennaio 2008, e Cincinnati, negli Stati Uniti (AP Photo/Al Behrman)

Chi è entrato almeno una volta da Lush associa il nome dell’azienda inglese di prodotti per la cura e la pulizia del corpo a negozi profumati dove commessi entusiasti riempiono i clienti di complimenti, a confezioni nere molto semplici e riciclabili, alle etichette con sopra il nome e il disegno del viso di chi ha preparato il prodotto. Saponi, creme, bombe da bagno sono tutti preparati a mano e con ingredienti ricercati e biologici, e si vendono solitamente a peso: una saponetta al miele costa per esempio 5,90 euro all’etto, un olio da massaggio agli agrumi 9,50 euro per 50 grammi, e uno shampoo alla frutta 7,50 euro per 100 grammi. Ma Lush non è solo un marchio con un’identità molto studiata (ha anche un manifesto di valori): è anche un’azienda molto attiva dal punto di vista politico e sociale.

Oltre a non testare i cosmetici sugli animali e a realizzare solo prodotti vegetariani, (non vende in Cina perché le leggi locali proibiscono la vendita di prodotti cosmetici non testati sugli animali), Lush sostiene e finanzia molti gruppi di attivisti di sinistra impegnati negli ambiti più diversi, dal rispetto per l’ambiente ai diritti della comunità LGBT: su Quartz la giornalista Aamna Mohdin spiega come e perché Lush lo fa. Mohdin precisa anche che l’azienda non sembra correre rischi legali sostenendo gli attivisti, per quanto radicali, dato che si tratta sempre di gruppi nonviolenti, spesso finanziati anche da altre società, come l’azienda di abbigliamento tecnico Patagonia.

La storia di Lush

Lush – che significa “lussureggiante, rigoglioso” ed è solitamente usato per descrivere la vegetazione – fu fondata nel 1995 da Mark Costantine, attuale amministratore delegato dell’azienda, da sua moglie Mo, e altri quattro soci. Dopo essersi conosciuti nel salone di bellezza dove lavoravano, negli anni Ottanta Costantine e un’altra socia, Elizabeth Weir, iniziarono a produrre cosmetici per Anita Roddick, fondatrice e proprietaria dell’azienda di cosmetici The Body Shop, ora di proprietà di L’Oréal. La società di Costantine e Weir crebbe a tal punto da diventare il primo fornitore di The Body Shop, che la comprò nel 1984 per 14 milioni di dollari. Mark e Mo Costantine investirono il denaro in una società che vendeva cosmetici per posta, la Cosmetics To Go, che però fallì poco dopo perché i Costantine non riuscivano a soddisfare il numero troppo alto di ordini che ricevevano.

Oggi Lush ha negozi in 49 paesi diversi, con più di 900 punti vendita. Nel 2015 ha fatturato 574 milioni di sterline, più di 733 milioni di euro. In Italia, dove Lush ha aperto un negozio per la prima volta nel 1998, a Milano, i punti vendita sono 34.

Le campagne sostenute da Lush in giro per il mondo

The Body Shop è stata una delle prime aziende a sostenere campagne sociali: si è opposta alla sperimentazione dei cosmetici sugli animali e ha lanciato iniziative per mettere in piedi attività imprenditoriali in alcuni paesi in via di sviluppo. Lush ne ha seguito l’esempio da subito e si è anche spinta oltre, sostenendo gruppi di attivisti più radicali, o comunque impegnati in campagne più divisive. Sul sito di Lush si trovano spiegazioni sui danni provocati dalla pesca a strascico, dall’estrazione di sabbie bituminose, e sul TTIP, l’accordo commerciale in discussione tra Stati Uniti e Unione Europea.

Nel Regno Unito Lush ha sostenuto l’occupazione di una pista di Heathrow, a Londra, per protestare contro l’espansione dell’aeroporto a luglio 2015, e l’occupazione dell’abbazia di Westminster per opporsi ai tagli dei sussidi per i disabili nel 2014. Nel 2011 ha sostenuto una campagna a favore dell’apertura delle frontiere ai migranti. Nel 2015 negli Stati Uniti Lush ha finanziato un gruppo di animalisti contrario alla sperimentazione animale in un laboratorio dell’Università dello stato di Washington e Peaceful Uprising, un gruppo ambientalista che si oppone all’estrazione di sabbie bituminose nello Utah anche ostacolando il lavoro delle aziende che se ne occupano. E questi sono solo alcuni esempi.

In Italia Lush ha sostenuto la campagna Svegliati Italia a favore delle unioni civili per coppie eterosessuali e omosessuali: nei giorni precedenti il 23 gennaio 2016, quando si sono tenute le manifestazioni in sostegno dell’allora disegno di legge Cirinnà, i negozi di Lush distribuivano volantini della campagna e avevano le vetrine addobbate a tema.

Per finanziare le campagne che sostiene, Lush chiede anche il contributo dei suoi clienti: il ricavato delle vendite della crema New Charity Pot ad esempio è devoluto ad associazioni del paese o della città in cui si trova il punto vendita. A febbraio 2015 i negozi della Campania hanno organizzato una raccolta fondi per la Cooperativa Lazzarelle che offre lavoro alle detenute del carcere di Pozzuoli. Nel 2013 sono stati raccolti quasi 3 milioni di euro grazie alla vendita della Charity Pot; in Italia sono stati raccolti 450mila euro dal 2010 a oggi, di cui 150mila solo nel 2015.

Un altro prodotto usato per raccogliere fondi è il bagnoschiuma FUN: per ogni 200 grammi venduti, Lush dona 15 centesimi a gruppi che organizzano attività per i bambini nella zona di Fukushima, in Giappone, colpita dal terremoto e dal successivo disastro nucleare l’11 marzo 2011. Sempre per aiutare gli abitanti di Fukushima, Lush ha prodotto un sapone con la colza prodotta in quell’area.

Lush è davvero così buona?

Oltre al sostegno alle campagne ambientaliste e in favore dei diritti civili, Lush è responsabile anche di altre buone azioni. In primo luogo non approfitta in nessun caso dei paradisi fiscali e si impegna a pagare la giusta percentuale di imposte in ogni paese in cui è presente. Su Quartz Mohdin ha paragonato la condotta fiscale di Lush a quella di L’Oréal nel Regno Unito.

Una regola interna dell’azienda stabilisce che gli stipendi pagati ai dipendenti nei ruoli più importanti non possano superare di 14 volte quelli con i salari più bassi. Dal punto di vista ambientale, Lush si impegna a far viaggiare i suoi dipendenti in treno invece che in aereo, per quanto possibile, e dona 50 sterline (quasi 64 euro) per ogni tonnellata di anidride carbonica emessa nei voli che i suoi dipendenti prendono per lavoro.

Lush ha dimostrato anche di avere un certo senso dell’umorismo. Nel 2014 non si limitò a fare causa ad Amazon perché vendeva cosmetici di altri marchi usando l’aggettivo “lush” – e la vinse –, ma registrò anche il nome del direttore di Amazon UK, Christopher North, come quello di uno shampoo, che poi però non mise mai in vendita.

Ovviamente l’attivismo di Lush riceve anche molte critiche, soprattutto da gruppi che non la pensano allo stesso modo: l’organizzazione filoisraeliana americana StandWithUs l’ha per esempio criticato per il sostegno a un’associazione che chiede il boicottaggio dei prodotti israeliani. Secondo Mohdin però i pareri positivi sono più numerosi e Lush è diventata un modello di successo per molte società che stanno imitando le sue regole aziendali e il suo impegno a favore di attivisti e campagne. Secondo un sondaggio condotto dalla società Which?, nel 2012, nel 2014 e nel 2015 Lush è stata scelta come la migliore azienda per il servizio ai clienti, tra le 100 più grosse, di tutto il Regno Unito.