• Mondo
  • Giovedì 17 marzo 2016

Il mondo che Obama ci lascia

Cosa dice un immenso e discusso articolo dell'Atlantic sulla politica estera di Barack Obama, dal momento in cui ha cambiato tutto ai paragoni col Joker di Batman

Barack Obama (Ashley Landis-Pool/Getty Images)
Barack Obama (Ashley Landis-Pool/Getty Images)

Pochi presidenti americani hanno dovuto affrontare tanti problemi internazionali quanti se n’è trovati davanti Barack Obama. Negli ultimi anni in Medio Oriente è successo di tutto – a voler fare un elenco non si finirebbe più – ma anche in Asia le cose non sono andate sempre lisce: c’è stato il problema di integrare la Cina nel sistema internazionale, ci sono stati i test missilistici della Corea del Nord e una rinnovata intenzione della Russia di tornare a comportarsi da impero più che da nazione ridimensionata dalla fine della Guerra fredda. Poi il riscaldamento globale, l’arma nucleare iraniana, le aperture di Cuba, e chi più ne ha più ne metta. Allo stesso tempo è stato complicato per esperti e analisti comprendere fino in fondo le priorità della politica estera di Obama: perché non ha fatto quasi niente in Siria? Perché ha lasciato che la Russia si prendesse l’Ucraina orientale, dopo la Crimea?

Lo stimato giornalista Jeffrey Goldberg ha scritto un immenso articolo sull’Atlantic intitolato “The Obama Doctrine“, “La dottrina di Obama”, in cui ha cercato di mettere in fila i pensieri e le convinzioni di Obama su diversi temi di politica estera; di capire cioè quale sarà la sua legacy, un termine molto usato nella politica americana (meno qui da noi) per indicare l’eredità di un certo personaggio pubblico. Goldberg ha incluso pezzi di conversazioni che ha fatto con Obama e i suoi collaboratori nel corso di diversi mesi: ha citato dichiarazioni ufficiali ma anche frasi riportate da terzi che non ha potuto direttamente verificare. Ne è uscita una cosa completa e interessante che aiuta a capire cosa sia stata la politica di Obama, cosa lui considera dei fallimenti e le cose di cui andare orgoglioso. Abbiamo messo insieme le nove cose più significative dell’articolo di Goldberg, con citazioni cinematografiche e letterarie e qualche altra cosa inaspettata.

1. «I love that guy»
Nell’autunno del 2006 uscì The Audacity of Hope, il secondo libro scritto dall’allora senatore dell’Illinois Barack Obama, manifesto politico della sua imminente campagna presidenziale. The Audacity of Hope – che ebbe un grande successo, anche perché Obama aveva da poco ricevuto l’endorsement della popolare conduttrice televisiva Oprah Winfrey – era diviso in nove capitoli e parlava tra le altre cose di politica estera. A differenza di quello che ci si sarebbe aspettato da un giovane senatore Democratico dell’Illinois, non c’erano parole d’amore per il cosiddetto “internazionalismo liberale”, una teoria delle relazioni internazionali che insiste molto sul ruolo delle organizzazioni multilaterali (come l’ONU) e che prevede l’intervento armato in un altro stato solo se l’obiettivo è la promozione dei diritti umani e delle libertà personali. Obama sembrava mostrare molta più simpatia per l’approccio realista – nel senso della dottrina realista di politica estera – adottato negli anni Novanta dall’allora presidente Repubblicano George H. W. Bush, (padre di George W. Bush), quello che ricacciò indietro Saddam Hussein dal Kuwait e che si ritrovò a gestire la fine dell’Unione Sovietica – un approccio, per capirci, molto diverso da quello più aggressivo e interventista adottato dall’amministrazione di Bush figlio tra il 2001 e il 2009.

George H. W. Bush and Brent ScowcroftGeorge H. Bush insieme a Brent Scowcroft, in una foto scattata a Boca Grande, in Florida, il 12 novembre 1992 (AP Photo/Dennis Cook)

Obama era un grande estimatore della politica estera sia di Bush padre che del suo influente consigliere per la sicurezza nazionale, Brent Scowcroft. Durante i mesi che Obama passò a scrivere Audacity of Hope, Susan Rice (allora semplice consigliera di Obama, oggi consigliera per la sicurezza nazionale della sua amministrazione) gli dovette suggerire di citare almeno in un passaggio il suo apprezzamento per la politica estera di Bill Clinton, presidente Democratico conosciuto per la sua dottrina di “interventismo umanitario”: fare la guerra anche quando a essere minacciati all’estero sono i valori americani oltre che gli interessi economici, per bilanciare le frasi a favore di Bush e Scowcroft. Quelle posizioni – la vicinanza al realismo e la diffidenza per gli “interventi umanitari” – continuarono a condizionare la politica estera di Obama anche durante la sua presidenza. Tempo dopo Obama disse a Goldberg, riferendosi a Scowcroft: «I love that guy» («Adoro quel tizio»).

2. «Just when I thought I was out, it pulls you back in»
– Goldberg: «Giusto quando pensavo di esserne uscito…»
– Obama: «…ti tira dentro di nuovo».

Questa frase è pronunciata da Michael Corleone (interpretato da Al Pacino) in una famosa scena di Il Padrino – Parte III, e si riferisce alle difficoltà di Corleone a uscire dal giro della criminalità organizzata. Durante uno degli incontri con Obama, Goldberg ha cominciato quella stessa frase per descrivere i problemi degli Stati Uniti nel “disimpegnarsi” dal Medio Oriente, cioè finire le due guerre cominciate da George W. Bush (Iraq e Afghanistan) e non farsi coinvolgere in nuovi conflitti. Obama, che è un fan del Padrino, ha completato la frase pronunciata da Corleone: e sì, è stato un paragone azzeccato.

Obama aveva fatto del disimpegno militare dal Medio Oriente una delle proposte più importanti della sua campagna elettorale. Secondo Goldberg, Obama avrebbe detto privatamente che l’obiettivo più importante di un presidente americano nello scenario internazionale lasciato da Bush era «non fare cazzate» («Don’t do stupid shit»). Cosa intendesse per “cazzate” si capì quando Hillary Clinton – segretario di Stato della prima amministrazione Obama – criticò pubblicamente Obama per non essere intervenuto rapidamente in Siria, lasciando a suo dire spazio ai jihadisti. Obama, che quella volta si arrabbiò parecchio, pensava che gli interventisti come Clinton (che votò per esempio a favore dell’intervento americano in Iraq nel 2003, tra le altre cose oggi indicato da molti come uno dei fattori che ha provocato l’ascesa dello Stato Islamico) avessero dovuto imparare dal passato i pericoli di «fare cazzate». Obama e Clinton fecero pace, poi: ma le differenze tra i due sono evidenti ancora oggi per esempio sulle soluzioni proposte per la Libia (qui è spiegato meglio). Tornando al punto: Obama ha cercato di rimanere fuori dalle faccende del Medio Oriente finché ha potuto, pagando un caro prezzo politico per questo, ma è difficile dire che ci sia riuscito completamente. Il Medio Oriente l’ha trascinato dentro, di nuovo.

3. Joker e l’ISIS
Sembra che a un certo punto Obama abbia descritto lo Stato Islamico usando una famosa scena di Il cavaliere oscuro, il secondo film su Batman di Christopher Nolan. Secondo Goldberg, Obama avrebbe detto: «C’è una scena all’inizio in cui i capi delle gang di Gotham si stanno incontrando. Sono gli uomini che hanno diviso la città. Sono criminali ma hanno creato un certo tipo di ordine. Ciascuno controlla il suo territorio. Poi arriva Joker e infiamma l’intera città. L’ISIS è Joker. Ha la capacità di infiammare l’intera regione. Questo è il motivo per cui dobbiamo combatterlo». E infatti gli Stati Uniti hanno cominciato a combatterlo, ma non nella misura in cui sembra suggerire la citazione cinematografica di Obama.

Gli Stati Uniti hanno messo in piedi una coalizione internazionale che ha cominciato a bombardare lo Stato Islamico in Iraq e in Siria e hanno provato ad addestrare dei gruppi di ribelli siriani, un piano che si è rivelato un grosso fallimento. Gli oppositori di Obama, ma anche diversi suoi stretti collaboratori, hanno fatto molte pressioni affinché il presidente aumentasse l’impegno militare contro lo Stato Islamico, senza ottenere risultati. Il punto è: Obama non considera lo Stato Islamico come una minaccia alla sicurezza nazionale statunitense («Non verranno qui a tagliarci la testa», ha ricordato più di una volta ai più interventisti della sua amministrazione). Insomma, secondo Obama lo Stato Islamico non è una minaccia così grave da mettere in discussione il disimpegno militare e le sue convinzioni di politica estera che si erano già mostrate appieno qualche mese prima, con le ultime-parole-famose sulla “linea rossa”.

4. Linee rosse che non lo erano (e il feticcio della credibilità)
Se c’è una cosa che è sempre contata nella politica estera americana, oltre alla forza militare in sé, è il concetto di credibilità. In poche parole funziona così: uno stato deve riuscire a rendere la sua minaccia credibile, in modo che i suoi avversari facciano ciò che dice senza che venga coinvolta necessariamente la forza militare. Per gli Stati Uniti – che per molti anni si sono visti come “i poliziotti del mondo” – la credibilità è stata necessaria per continuare a mantenere la loro influenza in diverse aree del mondo senza dovere impiegare ogni volta i loro soldati. Il 30 agosto del 2013, nove giorni dopo il terribile attacco chimico del regime siriano di Assad contro i ribelli e i civili di tre quartieri di Damasco (1.400 morti circa), Obama mise in discussione tutto quello che si era detto fino a quel momento sulla credibilità. Decise di non dare seguito a una sua precedente minaccia di bombardare Assad se lui avesse usato le armi chimiche contro la popolazione civile. C’era una “linea rossa” stabilita dallo stesso Obama mesi prima: era stata superata, ma non era successo niente. Per i suoi oppositori e per diversi esponenti della sua stessa amministrazione, Obama aveva fatto un errore enorme. Per lui quello fu però uno dei momenti di cui andare più orgoglioso di tutta la sua esperienza da presidente.

Quando Obama comunicò la decisione di non intervenire in Siria ai suoi consiglieri per la sicurezza nazionale, tutti i presenti rimasero stupefatti. Obama si era convinto dopo una lunga passeggiata nella Casa Bianca con Denis McDonough, il suo capo dello staff e il funzionario della sua amministrazione più restio a qualsiasi tipo di intervento armato. Alcuni provarono a fargli cambiare idea, ma Obama era deciso. Ben Rhodes, il vice-consigliere per la sicurezza nazionale, ha detto tempo fa a Goldberg: «Se sei abituato ad averlo intorno [Obama], sai quando ha una posizione ambivalente su qualcosa, quando è 51-49. Ma quella volta era completamente a suo agio con la decisione che aveva preso». Il 30 agosto del 2013, ha scritto Goldberg, fu per Obama il “giorno della liberazione”. Obama decise in un colpo solo di liberarsi di due cose: del cosiddetto “Washington playbook”, cioè quell’insieme di regole che erano sempre state usate per definire quando era giusto usare la forza in una crisi internazionale; e delle pressioni degli alleati mediorientali che più gli avevano causato frustrazione, cioè quelli che si lamentavano in privato dell’inazione degli Stati Uniti ma che allo stesso tempo chiedevano agli americani di agire al posto loro.

5. «John, remember Vietnam? Remember how that started?»
Giorni dopo l’attacco chimico compiuto dal regime siriano contro la popolazione civile di tre quartieri di Damasco, il segretario di Stato americano John Kerry tenne un discorso di fronte ai giornalisti dicendo, tra le altre cose: «La storia è piena di leader che quando contava di più hanno messo in guardia contro l’inazione, l’indifferenza e specialmente contro il silenzio». Kerry si riferiva anche ad Obama, che fino a quel momento sembrava intenzionato di rispettare la cosiddetta “linea rossa” stabilita tempo prima. Ma le cose, come detto, andarono diversamente.

Le divisioni sula “linea rossa” non furono le prime che misero Obama in contrasto con alcuni importanti consiglieri della sua stessa amministrazione. Obama si era scontrato anche con il suo primo segretario di Stato, Hillary Clinton. Tra le altre cose, Clinton fu una delle più convinte sostenitrici dell’intervento americano in Libia nel 2011, che portò alla destituzione dell’allora presidente Muammar Gheddafi: oggi Obama considera quell’intervento un fallimento e la caotica situazione libica attuale è uno dei motivi della sua reticenza a intervenire nuovamente in un paese del Medio Oriente o del Nord Africa. Negli ultimi anni il contrasto più evidente è stato però quello con Kerry. Goldberg ha scritto che la frustrazione di Obama e verso Kerry e la sua lobby è cresciuta con il passare del tempo. Durante una riunione del National Security Council tenuta a dicembre del 2015, Obama ha ordinato che le proposte per un intervento militare arrivassero esclusivamente dal segretario della Difesa: Goldberg ha scritto che diversi hanno interpretato quel gesto come un colpo diretto contro Kerry. Lo stesso Joe Biden – vicepresidente, considerato molto vicino a Obama – disse a un certo punto a Kerry, per dissuaderlo dalla sua idea di intervenire militarmente in Siria: «John, remember Vietnam? Remember how that started?» («John, ti ricordi del Vietnam? Ricordi come iniziò tutto?»).

6. “If only everyone could be like the Scandinavians, this would all be easy”
Nel corso della sua presidenza, Obama ha avuto diversi problemi con i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, tra cui Israele. Goldberg ha raccontato un curioso aneddoto che mostra il difficile rapporto tra Obama e Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano dal 2009 con cui Obama si è scontrato soprattutto sull’accordo relativo al programma nucleare iraniano. Durante un incontro avvenuto diverso tempo fa alla Casa Bianca, Netanyahu cominciò a fare una specie di lezione a Obama sul Medio Oriente, dicendogli di quanto fosse pericoloso ed evitando l’intero punto della discussione: i negoziati di pace tra Israele e Palestina. A un certo punto Obama interruppe Netanyahu e gli disse: «Bibi, devi capire una cosa. Sono un nero cresciuto soltanto da sua madre: e vivo qui, in questa casa. Vivo alla Casa Bianca. Sono riuscito a farmi eleggere presidente degli Stati Uniti. Tu pensi che io non capisca quello che stai dicendo, ma non è così».

Obama NetanyahuBarack Obama e Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, il 9 novembre 2015 (Olivier Douliery-Pool/Getty Images)

Obama ha mostrato irritazione anche verso l’Arabia Saudita, il principale alleato arabo degli americani in Medio Oriente. Durante un incontro a porte chiuse con il primo ministro australiano Malcolm Turnbull, Obama avrebbe detto, riferendosi al suo rapporto con i sauditi: «È complicato». Obama ha riconosciuto che il radicalismo islamico che si è diffuso negli ultimi anni è stato incoraggiato anche dagli alleati degli Stati Uniti, tra cui l’Arabia Saudita. Se alcuni paesi, per esempio l’Indonesia, si sono spostati progressivamente verso un’interpretazione dell’Islam più radicale, la responsabilità secondo Obama è soprattutto dei sauditi e di altri paesi arabi del Golfo, che hanno cercato di diffondere una forma di Islam più radicale con grossi finanziamenti e con l’istituzione di madrasse wahhabite (le scuole islamiche dove si insegna la versione dell’Islam adottata in Arabia Saudita). Obama ha sintetizzato i fastidi verso i suoi alleati mediorientali dicendo, scherzando: «Tutto quello di cui ho bisogno in Medio Oriente sono pochi autocrati svegli», più pragmatici e emozionalmente controllati. «If only everyone could be like the Scandinavians, this would all be easy» («Se tutti fossero come gli scandinavi, sarebbe tutto più facile»).

7. «They are overextended. They’re bleeding»
Parlando con Goldberg, Obama ha affrontato anche il suo rapporto con Putin, riservando al presidente russo parole cortesi ma sottolineando come non sia una sua priorità, diciamo così:

«La verità è che in tutti i nostri incontri Putin è stato meticolosamente gentile, molto schietto. I nostri incontri sono molto professionali. Non mi ha mai fatto aspettare due ore come fa con un mucchio di altre persone. È sempre interessato a essere visto come un nostro pari e come uno che collabora con noi, perché non è stupido. Sa che l’influenza della Russia nel mondo è diminuita significativamente. E il fatto che abbia invaso la Crimea o che stia cercando di sostenere Assad non lo rende improvvisamente un attore così significativo. […] Non c’è una sola riunione del G20 dove i russi abbiano stabilito l’agenda delle questioni importanti»

BRITAIN-G8-SUMMITBarack Obama e Vladimir Putin a una riunione del G8 in Irlanda del Nord, il 17 giugno 2013 (JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)

I rapporti tra i due non sono stati semplici durante gli anni della presidenza Obama, anche per le azioni russe in Ucraina orientale (dove Putin ha sostenuto i ribelli separatisti) e in Siria (dove ha appoggiato Assad bombardando, tra gli altri, anche alcuni gruppi ribelli alleati con gli Stati Uniti). I rapporti non si sono però completamente deteriorati perché Obama non ha mai considerato l’Ucraina e la Siria come situazioni da cui potesse arrivare una minaccia alla sicurezza nazionale americana. Goldberg ha scritto che in alcune riunioni recenti del National Security Council ci si è riferiti alla strategia di Obama nei confronti dell’impegno russo in Siria come a “un approccio alla Tom Sawyer”: Obama non ha intenzione di fermare Putin, come Tom Sawyer non aveva intenzione di fermare chi voleva pitturare la staccionata al posto suo. Il punto è che secondo Obama il governo russo ha fatto un errore madornale a intervenire in Siria (quindi perché fermarlo?), anche perché l’impegno militare ha messo ancora più sotto pressione l’economia russa, in crisi da diverso tempo: «They are overextended. They’re bleeding» («Hanno fatto il passo più lungo della gamba. Stanno sanguinando»).

8. «We don’t have religious tests to our compassion»
Il 15 e 16 novembre i leader più importanti del mondo si trovarono ad Antalya, in Turchia, per una riunione del G20: c’era parecchia apprensione attorno a quell’incontro perché solo un paio di giorni prima c’erano stati gli attentati di Parigi, rivendicati dallo Stato Islamico. Obama fu incalzato dalle domande dei giornalisti presenti che gli chiedevano se non fosse arrivato il momento di cambiare strategia in Siria. Goldberg ha scritto che Obama si irritò parecchio e ci fu solo un tema su cui espresse un’altra emozione a parte il fastidio: la politica americana sui rifugiati.

Tra i Repubblicani le reazioni agli attentati di Parigi furono molto dure: in diversi chiesero che venisse bloccato l’ingresso negli Stati Uniti di tutti i profughi siriani. Ted Cruz, senatore molto di destra e attuale principale sfidante di Donald Trump alle primarie, propose di accogliere solo i siriani cristiani. Chris Christie, ex candidato e oggi sostenitore di Trump, disse che a tutti i profughi, inclusi “gli orfani sotto i cinque anni”, dovesse essere impedita l’entrata negli Stati Uniti fino a che non fossero state applicate le adeguate procedure di controllo. Obama rispose alla domanda di un giornalista dicendo: «Quando sento la gente dire cose di questo genere – forse si dovrebbe far entrare solo i cristiani ma non i musulmani – quando ascolto leader politici suggerire che dovrebbe esserci un “test di ammissione” per le persone che sono scappate da un paese in guerra, penso che tutto ciò non sia americano. Non è quello che siamo. Non facciamo test religiosi prima di dare la nostra compassione».

9. Le più grandi sfide degli Stati Uniti
«L’ISIS non è una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. Il cambiamento climatico, invece, è una potenziale minaccia esistenziale per il mondo intero, se non facciamo qualcosa». In una delle conversazioni con Goldberg, Obama ha messo tra le priorità di cui occuparsi in futuro gli effetti del riscaldamento globale, su cui la sua amministrazione ha lavorato parecchio nel corso degli ultimi anni. A livello di relazione tra stati, Obama ritiene invece che le maggiori criticità non arriveranno dalla Russia, ma dalla Cina: secondo Obama, se la Cina continuerà a crescere in maniera pacifica e si prenderà le sue responsabilità per mantenere l’ordine nel sistema internazionale, le cose andranno bene. Se questo non succederà – per esempio se in Cina si riaffermasse di nuovo un forte sentimento nazionalista, o se il governo cinese vedrà il mondo solo in termini di sfere e regioni d’influenza – le cose andranno male: in quel caso «non solo vediamo il potenziale per un conflitto con la Cina, ma ci ritroveremo ad avere più difficoltà a gestire le altre sfide che ci si presenteranno» (anche in questo caso l’approccio di Obama sembra diverso da quello di Clinton, che vorrebbe una posizione più decisa del presidente nel Mar Cinese Meridionale, una zona dove le rivendicazioni della Cina si scontrano con quelle di altri paesi: «Non voglio che i miei nipoti vivano in un mondo dominato dai cinesi», ha detto Clinton).

Secondo Obama, oggi nel mondo ci sono molti posti dove i conflitti stanno prendendo il sopravvento: si sono creati per gli effetti della globalizzazione, per lo scontro tra culture diverse, per la scarsità delle risorse e per la crescita della popolazione. In alcuni di questi posti ci sono gruppi che stanno sfruttando quei conflitti, come lo Stato Islamico in Medio Oriente e Nord Africa. Il punto centrale della politica estera di Obama – forse quello più controverso ma probabilmente il più importante della sua legacy – è stato spiegato a Goldberg da Ben Rhodes: «L’argomento centrale è questo secondo quelli che si occupano di politica estera per mestiere: evitando che l’America si immerga nelle crisi mediorientali, Obama sta favorendo il nostro declino. Ma il presidente ha un’idea opposta, cioè che un eccessivo impiego di forze in Medio Oriente danneggerebbe la nostra economia, la nostra capacità di guardare ad altre opportunità e di gestire altre sfide; e più importante, metterebbe a rischio le vite dei soldati americani per ragioni che non sono direttamente legate alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti». Quello sarebbe il declino.