La storia del peggior videogioco di sempre

E.T. avrebbe dovuto salvare l'industria dei videogiochi e invece finì sepolto in migliaia di copie sotto il deserto del New Mexico: il suo creatore ha raccontato quello che successe

(AP Photo/Juan Carlos Llorca, File)
(AP Photo/Juan Carlos Llorca, File)

Il 26 aprile del 2014 una scavatrice circondata da alcuni operai, da una troupe cinematografica e da diverse decine di appassionati iniziò a scavare il terreno nella discarica di Alamogordo, in mezzo al deserto del New Mexico (Stati Uniti), non lontano da dove nel 1945 gli scienziati testarono la prima bomba nucleare. Nel giro di pochi minuti il vento sollevò talmente tanta polvere che solo una decina di persone si fermò a seguire gli scavi. Solo loro videro quello che era trovato sottoterra: centinaia di migliaia di cartucce di “E.T.”, quello che molti considerano il peggior videogioco mai realizzato. La storia del ritrovamento delle cartucce di E.T. fu ripresa molto dalla stampa internazionale, ma solo pochi giorni fa Howard Scott Warshaw, il creatore del videogioco, ha aggiunto altri dettagli a quella storia, durante un’intervista data a BBC Magazine. In particolare Warshaw ha raccontato come fu programmato il videogioco, come andarono i suoi incontri con Steven Spielberg – il regista del film a cui il gioco era ispirato – e quali furono le conseguenze che quella storia ebbe sulla sua vita.

“E.T.” avrebbe dovuto essere un enorme successo: era tratto da un film che aveva fatto il pieno di incassi al botteghino, ATARI – la casa produttrice del videogioco – aveva speso 21 milioni di dollari per acquistarne i diritti e nella campagna pubblicitaria compariva anche Spielberg. Warshaw, che era stato incaricato di programmare E.T., era considerato un genio dell’informatica e aveva appena finito di lavorare a un altro prodotto ispirato a un film di Spielbrg, “Indiana Jones e i predatori dell’Arca perduta”, un successo adorato dal pubblico e dalla critica. Nell’estate del 1982, ATARI aveva un gran bisogno di ripetere quel successo. Nonostante le vendite della società stessero andando bene, l’emergere dei primi computer casalinghi, come il Commodore 64, stava cominciando a danneggiare i profitti dell’azienda. Un nuovo blockbuster era quello che serviva per cambiare la situazione.

Il problema era che c’era una gran fretta. Il videogioco doveva essere nei supermercati per Natale, ma produrre le cassette di plastica che andavano inserite nelle console ATARI era una processo lungo e quindi c’era bisogno che il videogioco fosse completato almeno sei settimane prima della data di uscita. Nel luglio del 1982, Warshaw ricevette una telefonata dall’amministratore delegato di ATARI. In un’intervista data a BBC, Warshaw – che all’epoca aveva 24 anni – ha ricordato che il capo di ATARI gli disse che il gioco doveva essere pronto entro il primo di settembre. Allora programmare un videogioco richiedeva tra i sei e gli otto mesi, ma in quel caso Warshaw aveva a disposizione meno di cinque settimane. «Certo che ce la posso fare!», risposte Warshaw. «Fu un giorno che vivrà nell’infamia», ha ricordato oggi, citando le parole del presidente americano Franklin Delano Roosevelt dopo l’attacco a sorpresa dei giapponesi a Pearl Harbour, nel 1941.

Warshaw disegnò la struttura del gioco in pochi giorni e subito dopo incontrò Spielberg. La sua idea era creare un’avventura in cui il giocatore avrebbe dovuto aiutare E.T. a costruire un telefono interplanetario raccogliendo una serie di componenti ed evitando al contempo di essere catturato da scienziati e agenti del governo: voleva creare un gioco innovativo, ma abbastanza semplice da poter essere ultimato in cinque settimane. Spielberg sembrò capire subito che qualcosa sarebbe andato storto: «Non possiamo fare qualcosa di più simile a Pac-Man?», chiese a Warshaw.

No, non potevano: il film era stato un successo grazie alla sua capacità di fare delle cose diverse da quelle fatte fino a quel momento: un alieno tenero e in difficoltà, al posto dei soliti mostri spaziali. Il videogioco, spiegò Warshaw, non poteva essere da meno. «Iniziai a lavorare nel mio ufficio, ma dopo poco mi resi conto che c’era un problema. Ogni tanto dovevo andare a casa a mangiare e dormire. Così feci installare un secondo sistema di programmazione nel mio appartamento. In questo modo riuscii a non essere mai a più di due minuti di distanza dai computer, eccetto mentre stavo guidando. A un manager era stato affidato il compito di controllare che mangiassi ogni tanto. Fu il lavoro più difficile della mia vita. Alla fine del progetto la mia reazione fu: “Wow, ci sono riuscito!”».

ATARI ordinò quattro milioni di copie di E.T. e investì cinque milioni di dollari in quella che all’epoca divenne la più grande campagna pubblicitaria mai realizzata per un videogioco. «I manager – ha raccontato Warshaw – erano convinti che qualunque cosa avessimo messo in vendita con il marchio E.T. sarebbe stata un successo enorme». “E.T.”, però, era un prodotto davvero scadente. Oggi sviluppare un videogioco può costare fino a centinaia di milioni di euro e la sua lavorazione impiega decine e decine di persone. Prima di uscire, i giochi sono testati alla ricerca di errori e bug, spesso grazie all’aiuto di migliaia di volontari. Nulla di tutto questo fu fatto per E.T., realizzato nell’epoca romantica dei videogiochi, quando ognuno era il prodotto di una o più menti geniali che lavoravano praticamente in solitaria. “E.T.”, realizzato in meno di cinque settimane, era pieno di errori.

Il più fastidioso era probabilmente il problema dei pozzi: una serie di buche disseminate in tutte le mappe del gioco nelle quali era quasi impossibile non fare cadere E.T.. Come disse un bambino all’epoca intervistato dal New York Times, «Non è affatto divertente». I nemici di E.T., poi, erano decisamente troppo veloci e fuggire mentre si cercava di evitare di cadere in uno dei molti pozzi semi-invisibili era un’esperienza davvero frustrante.

Nonostante i molti problemi, nelle prime settimane E.T. ottenne un ottimo risultato e vendette 1,5 milioni di copie. Il passaparola però si diffuse in fretta: alla fine della stagione natalizia le vendite rimasero bloccate e ATARI si ritrovò con 2,5 milioni di invenduti. Un anno dopo, la società registrò a bilancio una perdita di 310 milioni di dollari e nel 1984 fu svenduta dal suo proprietario, la Warner. Nei trent’anni successivi il marchio ATARI è passato da una società all’altra senza mai riuscire a sollevarsi. Oggi, dopo l’ennesima crisi, ha deciso di rifocalizzare il suo business in settori abbastanza lontani dal mondo dei videogiochi, come ad esempio i casinò online.

Warshaw ha raccontato che il fallimento di E.T. fu un duro colpo per lui: in pochi mesi si trasformò da giovanissimo e geniale programmatore sulla cresta dell’onda a responsabile del più grosso fallimento nella storia dell’industria dei videogiochi. Warshaw cambiò mestiere, entrando nel settore immobiliare e attraversò un periodo di depressione. Qualche anno dopo decise di cambiare completamente la sua vita e diventò uno psicoterapeuta. Nel 2014, però, la troupe del documentarista Zak Penn gli chiese se voleva assistere agli scavi alla discarica di Alamogordo. Warshaw era lì quando nel pomeriggio del 26 aprile il cumulo di cartucce ATARI venne dissotterrato nel deserto del New Mexico e racconta di essersi commosso guardando la piccola folla di spettatori: «Quel piccolo gioco che avevo scritto trent’anni fa in meno di cinque settimane era ancora in grado di generare emozione. Sono stato pieno di gratitudine per quelle persone».