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  • Sabato 20 febbraio 2016

Il rivoluzionario tiro in sospensione

Fu introdotto nel basket negli anni Trenta – prima si tirava con i piedi a terra – e si disse che rovinava il gioco: proprio come succede oggi con i tiri di Stephen Curry

Kenny Sailors.
Kenny Sailors.

Alla fine del mese uscirà negli Stati Uniti un libro scritto da Shawn Fury che tratta della più grande rivoluzione nella storia della pallacanestro: il tiro in sospensione, cioè quello in cui il giocatore rilascia la palla nel punto più alto del suo salto. Il tiro in sospensione fu introdotto negli anni Trenta, non si sa con certezza da chi, e negli anni successivi permise lo sviluppo di altre innovazioni riguardanti per esempio la tecnica di rilascio della palla durante il tiro: ma fu accusato tra le altre cose di rovinare il basket, perché dava molta più centralità al gioco del singolo piuttosto che a quello della squadra. Oggi se ne riparla per il dibattito che si è sviluppato attorno a Stephen Curry e al suo modo di giocare a basket, basato soprattutto sui tiri da tre punti: alcuni dicono che Curry stia rovinando il basket, la stessa accusa che si faceva allora ai giocatori che tiravano in sospensione.

Come ha raccontato Shawn Fury sul Wall Street Journal, prima che si sviluppasse il tiro in sospensione il gioco della pallacanestro si basava su passaggi molto frequenti e su tagli e movimenti continui dei giocatori senza palla. Il tiro arrivava a conclusione di un’azione di gioco che coinvolgeva tutti i giocatori – a meno che fosse un’azione di contropiede – e non era il risultato unicamente di un’iniziativa individuale del singolo (per esempio, non esisteva quello che oggi viene definito “l’isolamento”, ovvero la possibilità che viene data a un giocatore di fare l’uno-contro-uno contro il suo difensore sfruttando un pezzo di campo lasciato libero appositamente dai suoi compagni di squadra). Il basket era sempre stato così a partire dall’anno della sua invenzione, nel 1891.

Anche la tecnica di tiro era completamente diversa da quella che siamo abituati a vedere oggi. Si tirava con i piedi piantati per terra e a due mani: senza che ci fosse quindi il netto movimento del polso della mano forte – che garantisce più precisione nel tiro: “spezzare il polso”, l’espressione che usano gli allenatori per indicare questa cosa qui – e senza che la mano debole svolgesse di conseguenza la funzione di “appoggio”. I primi giocatori che all’inizio degli anni Trenta cominciarono a tirare in sospensione mantennero per lo più la tecnica di tiro a due mani: semplicemente rilasciavano la palla nel punto più alto del salto, di modo che fosse più difficile subire la stoppata. I risultati furono abbastanza immediati, e nonostante le critiche il tiro in sospensione cominciò a garantire record di punti a giocatori e squadre che ne facevano uso. In quel periodo si sviluppò anche un altro tipo di tiro che veniva eseguito saltando e il cui il movimento iniziava spalle a canestro (si può vedere dal minuto 1:00 del video qui sotto): per esempio lo eseguiva Glenn Roberts dell’Emory & Henry College in Virginia.

Qualche anno fa John Miller Cooper, uno dei tanti candidati a essere considerato tra i primi a tirare in sospensione, aveva raccontato al New York Times come era stato tirare per la prima volta in sospensione in una partita del campionato di basket universitario, nel 1931: «I miei piedi lasciarono la superficie del campo e fu una bella sensazione. Fu una cosa libera e naturale e seppi subito che avevo scoperto qualcosa». Il figlio di John, Jack Cooper, ha riferito un aneddoto raccontato dal padre che fa capire meglio quali fossero allora le resistenze e le opposizioni nei confronti del tiro in sospensione: la prima volta che John Cooper provò a tirare in sospensione in una partita del campionato universitario, il suo allenatore di allora lo sostituì dal campo, lo fece sedere in panchina e gli disse: «Non farlo mai più». Lo sviluppo della tecnica di tiro in realtà era iniziata qualche anno prima: negli anni Venti del Novecento le squadre più forti di basket erano concentrate nel nord-est degli Stati Uniti, attorno alle città di Boston, Philadelphia e New York. Quando però la pallacanestro cominciò a diffondersi anche nelle zone rurali del paese, le regole che erano rimaste in vigore fino a quel momento iniziarono a essere messe in discussione. Per esempio Belus Van Smawley, uno dei giocatori che negli anni Trenta si distinsero per il tiro in sospensione, aveva perfezionato la sua tecnica in un deposito ferroviario abbandonato del North Carolina.

Nel corso degli anni cambiò anche la tecnica del tiro, cioè come venivano posizionate le mani sul pallone: piano piano si impose il tiro in sospensione a una mano, quello che vediamo ancora oggi e che viene considerato il “tiro moderno”. Il giocatore a cui si fa risalire l’introduzione di questo tipo di tiro è generalmente Kenny Sailors, che nel 1943 guidò la sua squadra della University of Wyoming al titolo NCAA, il campionato universitario: Sailors aveva sviluppato una buona tecnica di tiro in elevazione allenandosi da adolescente contro suo fratello, che era più grande e più alto di lui.

La diffusione del tiro in sospensione provocò tra le altre cose un aumento significativo della media di punti che le squadre segnavano durante il campionato di pallacanestro universitario americano. I critici del tiro in elevazione comunque continuarono a farsi sentire anche nei decenni successivi. Nel corso degli anni Quaranta Moose Kraus – figlio di immigrati lituani e allora allenatore dell’University of Notre Dame, a South Bend (Indiana) – propose di introdurre una palla più pesante per rendere più difficile il tiro dalla distanza e rendere di nuovo interessante il gioco del basket. Secondo diversi studiosi della storia della pallacanestro, comunque, il tiro in sospensione è il cambiamento più rivoluzionario mai introdotto nella storia di questo sport: in diversi stanno prendendo ad esempio la storia del tiro in sospensione per dire che no, Curry non sta rovinando il gioco, lo sta rivoluzionando.