La fine della legge di Moore

Uno dei pilastri dell'informatica non sarà più rispettato: un po' per motivi pratici, un po' perché è cambiato il modo in cui usiamo i computer

Il computer centrale della Midland Bank a Brent, Londra, Regno Unito - 16 dicembre 1969 (Wesley/Keystone/Getty Images)
Il computer centrale della Midland Bank a Brent, Londra, Regno Unito - 16 dicembre 1969 (Wesley/Keystone/Getty Images)

Tra poche settimane la Semiconductor Industry Association (SIA) degli Stati Uniti e le altre associazioni in giro per il mondo che coordinano lo sviluppo e la produzione dei semiconduttori – quindi processori che fanno funzionare dispositivi di ogni tipo, compreso quello su cui state leggendo questo articolo – pubblicheranno un documento che di fatto segnerà la fine della “legge di Moore”, la regola dell’informatica più conosciuta anche tra chi ha poca dimestichezza con i computer. In un lungo articolo pubblicato su Nature, M. Mitchell Waldrop spiega che si tratterà di un passaggio storico per i produttori di processori e che aprirà nuove opportunità per la cosiddetta “Internet delle cose” (“Internet of things”), cioè la possibilità di avere oggetti che dialogano tra loro online svolgendo compiti di vario tipo.

Gordon Moore, il cofondatore dell’azienda produttrice di microprocessori Intel, nel 1965 notò una cosa interessante: in media il numero di componenti integrati su un circuito raddoppiava ogni anno, raddoppiando quindi la potenza di calcolo dei computer. Dieci anni dopo, sulla base di nuovi dati raccolti, Moore perfezionò quella che sarebbe diventata la “legge di Moore”, osservando che il raddoppio della potenza avveniva ogni biennio. Negli anni seguenti l’industria dei semiconduttori adottò la legge di Moore, ritenendo che due anni fossero una scadenza idonea per elaborare sistemi, tecnologie e strategie per raddoppiare la potenza dei microprocessori. Per capirci, quindi, la legge di Moore dice che la potenza di calcolo dei processori si raddoppia ogni due anni a parità di dimensioni.

legge-moore

Da allora, salvo qualche deroga, il ritmo della produzione dei processori è stato mantenuto con un’accuratezza quasi sorprendente, se si pensa alla complessità di ideare e produrre microprocessori sempre più piccoli e potenti. Oltre a ideare il componente e la sua architettura, è necessario inventarsi (o adattare) anche i macchinari per la produzione vera e propria, senza contare la necessità di coordinarsi con i fornitori delle materie prime e con chi produce altri componenti che fanno da contorno a quelli principali del processore. Per assicurarsi che tutto fili liscio, periodicamente la SIA e le altre associazioni pubblicano l’International Technology Roadmap for Semiconductors (ITRS), una serie di documenti che elencano obiettivi e tempi per lo sviluppo dei nuovi processori, in un periodo piuttosto lungo che arriva spesso a comprendere i 15 anni successivi alla pubblicazione.

L’ITRS finora aveva mantenuto la legge di Moore tra i suoi obiettivi, seppure consapevole che il processo di miniaturizzazione previsto negli anni Sessanta non sarebbe potuto andare avanti all’infinito. Attualmente i microprocessori più potenti hanno circuiti larghi 14 nanometri (un miliardesimo di metro) e si sta lavorando per farne di ancora più piccoli, ma ci sono limiti fisici con i quali si dovrà fare i conti quando si arriverà nell’ordine dei 2-3 nanometri. La maggiore concentrazione di componenti permette di avere microprocessori più veloci, ma al tempo stesso tendono a riscaldarsi molto. A 2 nanometri i componenti sarebbero larghi quanto una decina di atomi e diventerebbero molto instabili, quindi poco affidabili per gestire i calcoli. Anche se si risolvesse questo problema, resterebbe quello del calore prodotto, difficile da dissipare in una architettura così densa.

Quando iniziarono ad applicare la legge di Moore, i produttori di semiconduttori pensarono che la tecnologia si sarebbe evoluta verso altre soluzioni, permettendo di mantenere il ritmo del raddoppio ogni due anni. Sfortunatamente per ora le ricerche su sistemi alternativi non hanno portato a grandi progressi. L’articolo di Nature spiega che con la prossima stesura dell’ITRS si prenderà atto di questa situazione e, per la prima volta, sarà contemplato in modo più esplicito un passaggio a un ritmo di sviluppo diversi, anche sulla base di come è cambiata l’informatica da quando Moore fece la sua osservazione.

Ogni giorno miliardi di persone usano smartphone, tablet e piccoli computer portatili per navigare su Internet, lavorare, giocare e guardare contenuti in streaming. Nella maggior parte dei casi, si tratta di operazioni che richiedono capacità di calcolo contenute tali da non rendere necessari processori molto potenti. L’evoluzione delle tecnologie cloud ha accentuato ulteriormente questa tendenza: le attività che richiedono grande potenza di calcolo sono svolte da computer (server) nei grandi centri dati, su cui fanno affidamento i dispositivi che teniamo in mano per svolgere le elaborazioni e i compiti più complicati. Nei centri dati, entro certi limiti, non è necessario avere una miniaturizzazione estrema dei processori, e non c’è quindi motivo di mantenere l’alto ritmo imposto dalla legge di Moore.

La nuova ITRS impegnerà i produttori di microchip e altri componenti a occuparsi più estesamente delle cose che ognuno di noi utilizza nel quotidiano, e che potrebbero essere migliorate con processori per farle dialogare tra loro e a distanza tramite Internet. La proposta è di concentrare in modo più proficuo le attenzioni sulle effettive necessità di chi usa i dispositivi, e che sono molto più complesse di una semplice indicazione di velocità di un microprocessore.