Si può salvare il Monte dei Paschi?

La "banca più antica del mondo" sembra essere in una crisi senza via di uscita, appesantita da un intreccio tra politica e finanza durato per vent'anni

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

Operai impegnati nella manutenzione dell'insegna della sede napoletana del Monte dei Paschi di Siena (ANSA / CIRO FUSCO)
Operai impegnati nella manutenzione dell'insegna della sede napoletana del Monte dei Paschi di Siena (ANSA / CIRO FUSCO)

Lo scorso 21 gennaio Matteo Renzi ha invitato a investire nel Monte dei Paschi di Siena: «È una banca risanata, è un ottimo affare», ha detto durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi. Nelle tre settimane successive, MPS è stata la grande banca italiana andata peggio in borsa e ha perso circa un terzo del suo valore. I suoi CDS, cioè i titoli che funzionano come un’assicurazione contro il fallimento, sono arrivati allo stesso prezzo dei titoli di stato greci. Nel frattempo MPS ha perso più di un miliardo di euro, soprattutto a causa di clienti che hanno ritirato i loro depositi. Le ultime settimane sono state molto difficili per tutto il sistema bancario italiano, ma MPS si è distinta in negativo e oggi è considerata una delle più grandi debolezze di tutto il settore. Persino gli esperti faticano a vedere quale soluzione potrebbe metterla al sicuro.

La crisi di MPS viene da lontano e racconta molto dei problemi del sistema finanziario italiano e del suo intreccio con la politica. «La storia del Monte dei Paschi si lega a quello che la banca rappresenta per la città di Siena», racconta David Allegranti, giornalista e autore del libro Siena Brucia. «Non è una crisi legata soltanto al comportamento dei dirigenti o alle acquisizioni sbagliate, ma alla commistione tra politica e finanza». MPS è stata per anni una banca unica nel sistema italiano: le sue quote di controllo erano possedute dalla Fondazione Monte dei Paschi, una strana creatura formalmente privata ma i cui amministratori sono di fatto nominati da politici locali, senesi e toscani.

Molte banche italiane sono partecipate da una o più fondazioni bancarie, ma in nessun istituto di grandi dimensioni la fondazione esercitava un controllo pari a quello che la Fondazione Monte dei Paschi aveva su MPS. Gli amministratori locali hanno scelto per più di due decenni i vertici della fondazione, che a sua volta hanno nominato quelli della banca, e così «era inevitabile che le scelte del management fossero influenzate dalle necessità della politica», spiega Allegranti, «e questa commistione ha creato problemi non da poco». Più che pensare a fare profitto, dicono in molti, i manager si occupavano di distribuire gli utili sul territorio: un approccio rivendicato anche con un certo orgoglio, per il modo in cui la banca contribuiva così allo sviluppo della città. MPS e la Fondazione finanziavano di tutto a Siena: dall’università agli ospedali, passando per le squadre sportive e gli eventi culturali. Gli investimenti della Fondazione valevano da soli il 4 per cento del PIL nell’intera provincia.

Ma i manager e i politici che guidavano la banca non erano generosi soltanto nei confronti del territorio. In questi ultimi anni i giornali hanno scoperto diversi casi in cui sono stati concessi prestiti o altri favori a importanti personaggi politici. Il Fatto Quotidiano, per esempio, ha raccontato lo scorso ottobre che MPS ancora oggi si rifiuta di riscuotere da Silvio Berlusconi una fideiussione che vale più di otto milioni di euro. Come nei casi delle quattro banche salvate dal governo alla fine del 2015, si è scoperto che a volte i manager concedevano prestiti ad amici e alleati che non avevano speranze di restituirli.

Negli anni precedenti alla crisi globale del 2008, con i mercati finanziari in crescita in tutto il mondo, MPS ha continuato a operare normalmente senza che quasi nessuno tra giornalisti, politici ed economisti facesse notare le inefficienze e i rischi di un simile funzionamento. All’inizio degli anni 2000, MPS era la terza banca del paese; nel 2007 il suo management voleva espandere le attività dell’istituto. Alla fine dell’anno MPS acquistò per 10 miliardi la Banca Antonveneta (BAV), uno storico istituto bancario italiano finito in crisi e acquistato prima da un gruppo olandese e poi da uno spagnolo. In molti festeggiarono il ritorno di BAV in mani italiane, ma altri fecero notare che pochi mesi prima BAV era stata ceduta per appena 6,6 miliardi di euro: in pochi mesi MPS aveva pagato per la stessa banca un prezzo quasi doppio.

Tra la concessione di prestiti a chi non ne aveva i requisiti, la necessità di distribuire utili alla fondazione (distribuzione che aveva una sua utilità, per il territorio, ma nel tempo era diventata anche una forma di clientelismo) e le operazioni spericolate come quella di BAV, la situazione di MPS non poteva andare avanti così a lungo. Con l’inizio della crisi nel 2008 i problemi vennero a galla. Iniziarono una serie di anni molto difficili, culminati nel 2011 con una perdita di quasi cinque miliardi di euro. L’allora presidente di MPS, Giuseppe Mussari, un avvocato calabrese che per sua stessa ammissione non capiva molto di finanza, si dimise (e poco dopo venne nominato presidente dell’Associazione Bancaria Italiana). Al suo posto arrivò Alessandro Profumo, ex amministratore delegato di Unicredit e uno dei banchieri italiani all’epoca più stimati. Da allora iniziò la lunga e difficile opera di risanamento che è ancora in corso e di cui non si vede la fine.

MPS ha dovuto affrontare aumenti di capitale per rafforzare il suo patrimonio, ha ricevuto prestiti dallo stato – i “Tremonti bond” e poi i “Monti Bond” – ed è stata coinvolta in una serie di inchieste giudiziarie. La più grave è stata quella del 2013, quando si scoprì che quattro anni prima gli allora dirigenti della banca avevano sottoscritto dei complicati contratti derivati con la banca giapponese Nomura. Grazie a questi titoli, tenuti nascosti ai controllori interni e agli istituti di vigilanza, gli amministratori riuscirono a mascherare le perdite del 2009 e a spalmarle, con grossissimi interessi, sugli anni successivi. Grazie all’operazione i vertici della banca riuscirono a distribuire utili anche quell’anno, così da permettere alla fondazione di continuare a finanziare le sue attività.

Oggi il caso derivati è chiuso e MPS ha compiuto talmente tanti aumenti di capitale che la fondazione non conta più quasi nulla all’interno dell’azionariato. Ma la banca continua a pagare ancora oggi i decenni di cattiva gestione. «MPS non può certo dirsi risanata. Né in termini patrimoniali, data la grande massa di crediti deteriorati, né in termini di redditività potenziale, vista l’ampia forbice tra costo della raccolta e reali opportunità di impieghi», spiega Carlo Alberto Carnevale-Maffè, docente di Strategia all’università Bocconi. I “crediti deteriorati” a cui si riferisce Carnevale-Maffè sono i prestiti che le banche hanno difficoltà a riscuotere e che oggi sono considerati il principale problema del sistema finanziario italiano. MPS possiede da sola 26 miliardi di “sofferenze” (una sottocategoria che comprende i crediti deteriorati particolarmente difficili da riscuotere), cioè più del 10 per cento di tutte le “sofferenze” del sistema finanziario italiano. Inoltre, spiega Carnevale-Maffé: «Non sarà né agevole né particolarmente conveniente per MPS utilizzare la strada offerta delle GACS [il sistema di garanzie pubbliche per liberarsi dalle sofferenze introdotto dalla cosiddetta “bad bank] perché le condizioni dovranno essere in linea con i prezzi di mercato, ma soprattutto perché la banca sarebbe costretta a far emergere il differenziale tra il valore di libro dei crediti deteriorati e il loro valore attuale, e a riconoscere le relative perdite a bilancio».

In molti oggi si chiedono come sia stato possibile arrivare a questa situazione nonostante i lunghi anni di risanamento e gli aiuti forniti alla banca. Secondo alcuni la gestione di Fabrizio Viola e Alessandro Profumo, che si è dimesso nell’estate del 2015, non è stata all’altezza della situazione. Ma per Carnevale-Maffè era molto difficile fare meglio di come è stato fatto in questi ultimi anni: «La situazione di MPS era già fortemente compromessa al loro arrivo e l’andamento dell’economia italiana non ha certo migliorato la situazione. Profumo e Viola hanno avviato la ristrutturazione organizzativa, lavorando nel contempo per trattenere la base di clienti e per cercare nuovo capitale, e riuscendo anche a lanciare una nuova iniziativa come Banca Widiba. Il problema è che la politica non ha voluto mollare la presa sulla governance fino a che non è stato troppo tardi. Profumo ha provato a lungo a rendere contendibile la banca, alla ricerca di un partner industriale. Purtroppo non è riuscito a vincere la sua battaglia contro la fondazione».

Oggi l’amministratore delegato Fabrizio Viola sembra essere ancora ottimista sul futuro della banca, ma secondo molti l’unica salvezza per MPS è l’acquisizione da parte di un altro gruppo bancario. È una strada molto difficile da percorrere. Dopo l’entrata in vigore del cosiddetto bail-in – la direttiva europea che stabilisce un nuovo sistema per gestire i fallimenti della banche, che abbiamo visto in azione durante il recente salvataggio delle quattro banche – comprare una banca in difficoltà non conviene più come un tempo. È meglio aspettare l’ultimo momento, quando a un passo dal fallimento la direttiva impone la divisione della banca in una “good bank”, con tutte le parti sane, e una “bad bank” con le parti che non vanno, e a quel punto acquistare soltanto la prima. UBI Banca, che nelle ultime settimane era considerata l’acquirente più probabile di MPS, ha annunciato ieri che non intende procedere con la fusione.

Secondo alcune delle persone che lavorano dentro la banca, che hanno parlato al Post chiedendo di non riportare il loro nome, c’è anche un altro ordine di problemi. Un eventuale acquirente dovrà per forza di cosa indagare a fondo sui bilanci della banca, facendo emergere così altri prestiti, finanziamenti e favori ad amici e importanti alleati politici che i manager avrebbero portato avanti nel corso degli anni e che non sono ancora emersi. Qualcuno ipotizza che l’unica vera possibilità di salvezza per MPS sia la nazionalizzazione, cioè l’acquisto della banca da parte dello Stato, seguita da un rapido risanamento e quindi dalla vendita, in seguito a un accordo con le autorità europee. Secondo Carnevale-Maffè: «Se Renzi volesse davvero convincere i mercati che MPS è un buon affare avrebbe un modo molto semplice per farlo: comprarsela. E poi dimostrare che è in grado di risanarla senza guardare in faccia a nessuno». Ma con le elezioni amministrative alle porte – e viste le enormi polemiche causate da un intervento limitato come il salvataggio di quattro piccole banche popolari – sembra davvero difficile che il governo possa tentare di percorrere questa strada.