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  • Lunedì 8 febbraio 2016

Dobbiamo intervenire in Libia?

Molti dicono che è arrivato il momento di colpire l'ISIS prima che diventi ancora più forte, ma secondo gli esperti un attacco rischia di fare più male che bene

(AP Photo/Mohamed Ben Khalifa, File)
(AP Photo/Mohamed Ben Khalifa, File)

Da settimane si moltiplicano discussioni e voci su un presunto imminente intervento militare in Libia contro l’ISIS, che nel paese controlla da quasi un anno la città di Sirte, decine di chilometri di costa e ha dimostrato di essere in grado di compiere attacchi contro le installazioni petrolifere vitali per l’economia del paese. Il caos in cui da quasi due anni si trova la Libia ha contribuito ad aiutare l’espansione dell’ISIS, tanto che oramai Sirte è definita da esperti e militari la più importante base del gruppo fuori da Siria ed Iraq, e implica anche che oggi non esiste un governo legittimato a richiedere un intervento militare internazionale, cosa che a sua volta rende un’operazione del genere particolarmente delicata.

La situazione in Libia, in breve
Oggi la Libia è divisa tra due fazioni principali, una di ispirazione islamista con sede a Tripoli e una più laica e secolare, alleata del Parlamento riconosciuto dalla comunità internazionale, con sede a Tobruk, nell’est del paese. Accanto alle fazioni di Tripoli e Tobruk c’è un’ampia galassia di milizie che si alleano di volta in volta con l’una o con l’altra fazione, oppure che combattono per mantenere la loro indipendenza. La comunità internazionale ha compiuto grossi sforzi diplomatici negli ultimi mesi per portare a un accordo tra Tripoli e Tobruk e formare un governo di unità nazionale, in grado di chiedere ufficialmente l’intervento occidentale per sconfiggere l’ISIS. Un governo è stato formato qualche settimana fa con grandissimi sforzi, ma al momento si trova in esilio a Tunisi e le milizie che occupano Tripoli ne continuano a impedire l’insediamento nella capitale.

Cosa significa “intervenire”?
Nell’ultimo anno si è discusso sostanzialmente di due tipi di intervento. Del primo si è cominciato a parlare nella primavera-estate del 2015: sarebbe dovuto essere un intervento di “stabilizzazione” per proteggere l’eventuale governo di unità nazionale e addestrare le truppe di un nuovo esercito libico. Questo intervento era spinto in particolare dal governo italiano, che ha fatto sapere in diverse occasioni di essere pronto a prendere la guida della missione. All’epoca erano filtrate anche delle cifre sulla possibile dimensione della spedizione: circa 4.000 militari italiani, più qualche altro migliaio mandato da altri paesi europei.

Le difficoltà a insediarsi da parte del nuovo governo, però, hanno fatto tramontare l’idea di compiere un intervento di questo tipo, anche se formalmente l’opzione è ancora in ballo. Quella di cui si parla in questi giorni, invece, è una missione mirata in maniera specifica contro l’ISIS: dovrebbe tradursi in una serie di attacchi aerei contro le basi e i leader del gruppo, oltre che un coinvolgimento sul terreno di qualche centinaio di uomini delle forze speciali con ruoli di raccolta di informazioni e coordinamento con le milizie locali.

Chi è favorevole all’intervento?
Alcuni esponenti del governo francese, di quello del Regno Unito e diversi leader militari americani negli ultimi mesi hanno descritto come necessaria una campagna di attacchi anti-ISIS come quella che è già in corso in Siria e Iraq. Queste richieste sono diventate più pressanti dopo gli attentati di Parigi dello scorso novembre. Diverse operazioni militari di fatto sono già in corso: dalla fine dell’anno scorso forze speciali americane e britanniche si trovano in Libia con compiti di raccolta di intelligence e contatto con le milizie locali. Voli di ricognizione americani, francesi e forse anche italiani sono già in corso da settimane. In almeno un caso l’aviazione americana ha già bombardato la Libia, uccidendo in un attacco aereo un presunto leader locale dell’ISIS.

Le ragioni per giustificare l’intervento sono diverse. In Francia e nel Regno Unito c’è una forte pressione da parte dell’opinione pubblica per colpire l’ISIS ovunque sia possibile farlo. Per le forze armate statunitensi, poi, espandere l’intervento in Libia rappresenta la naturale prosecuzione delle operazioni in corso da più di un anno in Siria e in Iraq. Alcuni sospettano che l’ISIS possa utilizzare la Libia come “ultima fortezza” nel caso le sue basi in Siria ed Iraq vengano conquistate. Impedire che questo avvenga è quindi un obiettivo naturale per la missione di “degradare e distruggere” l’ISIS, assegnata all’esercito statunitense dal presidente Barack Obama.

Chi è contro?
La maggior parte degli esperti di Libia invita a essere prudenti. La situazione politica del paese è incredibilmente complessa e frammentata: un intervento militare dovrà inevitabilmente prevedere e includere anche una soluzione politica a questi problemi. Nel paese ci sono numerose fazioni politicamente lontane dall’ISIS, ma che ugualmente vedono in un potenziale intervento militare occidentale un’intrusione esterna. Intervenire in Libia senza tenerne conto potrebbe spingere verso lo Stato Islamico fazioni che oggi gli sono neutrali o addirittura ostili.

Claudia Grazzini, ricercatrice dell’International Crisis Group, ha spiegato all’Economist che inviare grossi contingenti militari in Libia è estremamente rischioso, mentre decidere di fornire armi e altri aiuti ad alcune milizie rischia di rafforzarle nel loro scontro con le altre milizie, piuttosto che favorire la lotta all’ISIS. Mattia Toaldo, ricercatore dell’ECFR, fa notare che l’attuale strategia – attacchi mirati e forze speciali – somiglia molto alla classica “guerra al terrore” che CIA ed esercito americano portano da anni avanti contro al Qaida in Yemen e Pakistan, senza produrre risultati particolarmente significativi. «Un intervento fatto oggi senza una strategia politica per la Libia potrebbe essere peggio di non intervenire affatto», scrive Toaldo.

Il New York Times ha scritto questa settimana che anche Obama è contrario all’intervento e che ha invitato i suoi collaboratori ad aumentare gli sforzi per portare alla creazione di uno stabile governo di unità nazionale prima di prendere in seria considerazione la possibilità di un intervento militare. La stessa posizione è stata ripetuta in questi giorni dal ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni.