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  • Giovedì 4 febbraio 2016

Il buon giornalismo può resistere ai facoltosi imprenditori che lo mantengono?

Se lo chiede Kathy Kiely, che si è appena licenziata da direttrice di Bloomberg Politics per la difficoltà di parlare del suo datore di lavoro

di Kathy Kiely – Washington Post

La settimana scorsa, la sera in cui è stata diffusa la notizia delle mie dimissioni da direttore di Bloomberg Politics, avevo un appuntamento con una studentessa della Princeton University che voleva intervistarmi per la sua tesi sulle donne nel giornalismo. La sua prima domanda è stata quando ho capito di voler diventare una giornalista. La riposta era semplice: nell’estate del 1976, quando ebbi la fortuna di iniziare un tirocinio nel giornale della mia città, il Pittsburgh Press. I miei colleghi non erano il tipo di persone che i responsabili all’orientamento professionale dell’università raccomanderebbero come mentori: indossavano vestiti di dubbio gusto e avevano un senso dell’umorismo scurrile. Le loro scrivanie – e spesso le loro vite – erano incasinate. Non erano molto interessati ai soldi o alla fama, a meno che non fosse quella di qualcun altro, per poterne fare una notizia. Erano anche pieni di risorse, estremamente affidabili sulle scadenze e del tutto allergici alle stupidaggini (che nelle redazioni sono conosciute con un nome meno edulcorato). Non c’era autorità che non fossero disposti a sfidare. E sebbene affermare che svolgessero un lavoro di utilità sociale avrebbe offeso il loro spirito ribelle, io segretamente ne ero convinta. In nessun caso però l’avrei dato a vedere: volevo disperatamente far parte del loro gruppo, orgogliosamente senza pretese.

Mi sono chiesta cosa avrebbero pensato di me adesso. Avevo appena lasciato un posto di lavoro con un buon stipendio e un’eccellente nota spese perché i dirigenti di Bloomberg avevano limitato ai loro giornalisti la libertà di parlare della possibilità che il proprietario della testata ed ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, potesse candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti. Forse quelli che una volta erano i miei eroi avrebbero pensato che fossi matta. O forse avrebbero detto che avevo rispettato il codice, definendo “cavolata” l’indicazione di trattare il mio capo in modo diverso da qualsiasi politico, politico della domenica o plutocrate che pensi di poter comandare il mondo.

Per darvi un’idea di cosa penso su come trattare gli aspiranti leader americani, ricordo ancora a memoria il parere – tutto fuorché reverenziale – che il responsabile per la politica del Pittsburgh Press diede al candidato governatore della Pennsylvania, che secondo lui aveva poche speranze di vincere: «Alan, COSA DIAVOLO STAI FACENDO?», urlò al malcapitato da dietro una piccola scrivania per le interviste nel mezzo di una redazione open space. Non mi illudo certo di essere capitata in un’epoca d’oro per il giornalismo libero. I giornalisti si affidano da sempre alla generosità di facoltosi outsider, e sono rari i casi in cui non sono sul libro paga di multimiliardari o ricche società. Ma credo che fino a non molto tempo fa ci fosse un “debito di riconoscenza” minore. Una volta sapevamo che il nostro lavoro bastava ad arricchire i nostri già ricchi editori. Le nostre storie offrivano uno spazio per la pubblicità, che portava il margine di profitto dei giornali a oltre il 20 per cento.

Ci furono già allora delle controversie, ma sulla base della mia esperienza in molte redazioni, questi casi rappresentavano l’eccezione alla regola. E resistere alle pressioni dei grandi inserzionisti non era necessariamente un atto eroico come poteva sembrare. Gran parte delle entrate dei giornali non provenivano da grandi annunci di importanti aziende, ma da persone che dovevano vendere case, auto o cuccioli. C’è stato un periodo in cui i piccoli annunci rappresentavano il 30 per cento delle entrate del Washington Post, come sottolineato dall’ex caporedattore Robert Kaiser in un saggio scritto per il Brookings Institution. Molte persone più esperte di me in materia hanno parlato molto del calo delle entrate pubblicitarie, del ruolo della tecnologia digitale e delle capacità di targettizzare i lettori con precisione, e in generale di come queste cose abbiano cambiato l’informazione. Questo fenomeno ha fatto sì che molti di noi dipendessimo non tanto dal successo delle società per le quali lavoriamo, quanto dalla larghezza di vedute dei proprietari che rilevano società di media per usarle come “prodotto civetta”.

Il proprietario di Amazon, Jeff Bezos, ha salvato il Washington Post; Bloomberg – diventato ricco grazie alla vendita di dati al mondo della finanza – ha costruito una delle poche società di media che continua a pagare uno stipendio sopra la media; Rupert Murdoch controlla un impero mediatico globale. Non è detto che sia uno scenario negativo: gli anni che ho passato a occuparmi di politica mi hanno insegnato che persone con grandi difetti possono comunque fare grandi cose. Non esiste un editore completamente disinteressato, e il giornalismo si troverà sempre in una zona di conflitto.
Tutti hanno degli interessi: dalle grandi società agli inserzionisti aziendali, dai magnati alle no profit e i governi. Ma come ho detto spesso agli studenti di giornalismo, o a chi è curioso (o scettico) della capacità dei giornalisti di rimanere obiettivi ed evitare l’auto censura: fare buon giornalismo è facile, bisogna solo essere disposti ad andare contro il proprio capo. È di gran lunga più facile quando non si hanno persone a carico e il mutuo è quasi estinto, ma davvero vogliamo che nelle redazioni lavorino solo persone come me? Contrastare il capo è più facile anche quando il capo è una società senza volto che si conosce a malapena, grazie alla romanzata (e sempre più inesistente) barriera tra il mondo dell’informazione e quello del business. O quando è solo una delle molte fonti di guadagno. Quando invece si parla di un unico finanziatore, con una serie di preferenze ben definite, e interessi economici e politici, il dilemma diventa molto più serio.

Una ragione in più per affrontare il problema. Viviamo in un’epoca in cui la globalizzazione dell’economia e il consolidamento della ricchezza hanno creato un’élite di cittadini transnazionali ed extraterritoriali, con finanze e interessi sempre meno trasparenti e facili da regolare. Ha generato un senso di delegittimazione e soppressione delle libertà che sono diventati una questione fondamentale non solo per le elezioni presidenziali americane, ma anche per il dibattito politico di altri paesi. Se queste nuove élite controllano i guardiani dell’informazione, il cinismo che sta logorando la società non potrà che acuirsi.

Dovremmo toglierci il cappello davanti a persone o società che invece di accumulare beni, li usano per preservare il teatro della democrazia, come ha fatto Ted Turner con CNN, Al Neuharth di Gannet con USA Today, Bezos salvando il Washington Post o Bloomberg con la società di news a cui ha dato il proprio nome. Qual è però il senso di creare o tutelare questi lavori se poi non viene data la possibilità di svolgerli nel modo giusto? Anche se i nuovi magnati dell’informazione sono troppo pragmatici per considerare i media come beni pubblici, dovrebbero capire che non c’è niente che valorizzi un mezzo di informazione come la credibilità.

© 2016 – The Washington Post