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  • Martedì 2 febbraio 2016

Nessuno vuole la democrazia in Palestina

Non Israele e gli Stati Uniti, incapaci di gestire un solido processo di pace, ma nemmeno le stesse autorità palestinesi, spaventate dalle possibili conseguenze di nuove elezioni

di Eli Lake - Bloomberg

Lavoratori palestinesi in fila a un checkpoint dell'esercito israeliano (Getty Images)
Lavoratori palestinesi in fila a un checkpoint dell'esercito israeliano (Getty Images)

Oggi è raro trovare qualcosa che metta d’accordo Hamas, l’Autorità Nazionale Palestinese, Israele e gli Stati Uniti. In materia di elezioni, tuttavia, sembra esserci un tacito accordo per non permettere ai palestinesi di scegliere i loro leader.

Le ultime elezioni in Palestina si sono tenute dieci anni fa, il 25 gennaio 2006: si votava per eleggere il consiglio legislativo palestinese. Da allora, mentre gran parte del mondo arabo vive una rivoluzione, la politica del paese è in fase di stallo. Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas è all’undicesimo anno di governo dopo aver ricevuto un mandato di quattro anni. Hamas governa Gaza da quando nel 2007 conquistò la Striscia con la forza. È facile capire perché i partiti al governo a Gaza e in Cisgiordania sarebbero contrari a nuove elezioni: Hamas e Fatah, guidata da Abbas, non vivono una fase di grande popolarità, ed entrambi i regimi hanno consolidato il loro potere a partire dalla fine degli anni Duemila. Secondo Avi Dichter, ex capo del servizio di sicurezza interna di Israele,«Abbas sta cercando di rimanere al potere il più a lungo possibile: è questo il vero motivo. Ha i tre incarichi più importanti: è il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, è di fatto a capo del parlamento palestinese, che non si riunisce da anni, ed è il presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina».

Per capire come mai Stati Uniti e Israele siano soddisfatti dell’attuale situazione politica, bisogna tornare indietro a George W. Bush. Ispirato dall’ex dissidente sovietico e politico israeliano Natan Sharansky, Bush dichiarò nel suo discorso inaugurale del 2005 che l’epoca in cui gli Stati Uniti sostenevano dittature per il bene della stabilità era finita. Bush disse che avrebbe invece sostenuto riforme democratiche promosse anche da uomini forti, se alleati degli Stati Uniti. Secondo Bush, le dittature alimentano il terrorismo. Condoleeza Rice, il secondo segretario di stato di Bush, riassunse questo visione in un discorso al Cairo nel 2005, quando disse che «per sessant’anni gli Stati Uniti hanno perseguito nella regione, qui in Medio Oriente, la stabilità a scapito della democrazia, non riuscendo a ottenere nessuna delle due».

L’idea metteva in discussione un presupposto importante del processo di pace di Oslo. Secondo Aaron Miller, un ex negoziatore americano del processo di pace, gli Stati Uniti non avrebbero mai esercitato pressioni sul predecessore di Abbas, Yasser Arafat, per i suoi tribunali di sicurezza, le esecuzioni extragiudiziarie o la corruzione, e «gli israeliani erano disposti a scambiare il controllo autoritario in cambio dell’ordine. Lo stesso patto che abbiamo stretto con i dittatori arabi. Abbiamo fatto questo giochetto per cinquant’anni». Le elezioni legislative del 2006 avrebbero dovuto porre fine a questo sistema, almeno per i palestinesi. Bush insistette affinché Abbas permettesse a Hamas di partecipare al voto, benché allo stesso tempo dovesse tenere a bada l’organizzazione. Quando però Hamas – contraria alla soluzione a due stati – finì per ottenere abbastanza seggi da formare la maggioranza, la nuova strategia politica di Bush andò in pezzi e Abbas si rifiutò di far insediare la nuova assemblea, dove il suo partito sarebbe stato in minoranza. Prima del giugno 2007, Hamas riuscì a cacciare l’Autorità Nazionale Palestinese fuori da Gaza, e da allora la politica palestinese è rimasta bloccata.

Dopo la vittoria di Hamas, Bush è tornato sui suoi passi e si è concentrato a rianimare il processo di pace. «Secondo la strategia della prima amministrazione Bush, una società democratica in Palestina sarebbe stata più ricettiva nei confronti della pace con Israele. Ma le elezioni legislative hanno stravolto l’equazione, poi sostituita dalla tesi altrettanto dogmatica secondo cui i processi democratici sarebbero un ostacolo verso la pace», ha detto Hussein Ibish, ricercatore dell’Arab Gulf States Institute di Washington. Anche Obama ha sostenuto questa tesi dogmatica. I suoi diplomatici non esercitano pressioni affinché Abbas indica delle elezioni, e Obama ha concentrato gli sforzi sulle trattative per il processo di pace. Secondo Elliot Abrams, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale di George W. Bush, «I problemi di Bush e Obama sono praticamente gli stessi: tutti vogliono raggiungere un accordo completo e definitivo, ma nessuno vuole occuparsi di questioni che considerano minori». Ovvero il poco affascinante impegno a favore della costruzione delle istituzioni e della società civile necessari perché la Palestina possa diventare uno stato.

I palestinesi, tuttavia, sono impazienti. L’uomo che più viene associato alla volontà di creare delle istituzioni democratiche, l’ex primo ministro Salaam Fayyad, è stato relegato ai margini da Abbas nel 2013, nonostante le obiezioni del segretario di stato americano John Kerry: Fayyad si è visto attribuire la responsabilità politica del taglio dei sussidi all’Autorità Nazionale Palestinese da parte di Europa e Stati Uniti, in risposta alla decisione di Abbas di cercare il riconoscimento della Palestina all’ONU. Kerry alla fine andò oltre la cosa: voleva un nuovo processo di pace, per il quale Abbas era più utile di Fayyad. Nonostante il turbine di incontri e trattative, l’iniziativa per la pace di Kerry fallì inevitabilmente come le precedenti. Cosa sarebbe successo però se questa volta Abbas e Netanyahu avessero raggiunto un accordo? Abbas, eletto oltre dieci anni fa e con un tasso di approvazione sceso sotto il venti per cento, sarebbe riuscito a convincere il suo popolo ad accettare la pace? Tutti gli osservatori esterni concordano sul fatto che la promessa non mantenuta del processo di pace degli anni Novanta e la prolungata occupazione di Israele abbiano radicalizzato i palestinesi. Oggi gli israeliani devono affrontare il pericolo degli accoltellamenti compiuti dai palestinesi, che vengono poi celebrati in canzoni popolari e sui social media.

Abbas conosce l’umore del suo popolo. Per questo, come il suo predecessore Yasser Arafat, gioca su due fronti. Dietro le quinte, collabora con le forze di difesa israeliane per mantenere l’ordine in Cisgiordania. Nei suoi discorsi, però, sostiene che i palestinesi responsabili degli accoltellamenti siano vittima della brutalità della polizia israeliana. Lo scorso autunno, disse che Israele aveva intenzione di fare delle modifiche alla moschea che si trova in cima al Monte del Tempio, alimentando la violenza che aveva silenziosamente contribuito a fermare. La situazione attuale è insostenibile. Abbas, che ha ottant’anni, non ha trovato un successore, ed è probabile che la sua morte dia il via a una lotta di potere. Nel peggiore dei casi, la stessa Autorità Nazionale Palestinese, oggi indebolita, potrebbe sgretolarsi.

Le società democratiche non hanno di questi problemi: sono dotate di un processo automatico che permette ai cittadini di nominare, di volta in volta, un successore al vecchio capo: si chiamano elezioni. Dieci anni fa, il presidente americano ritenne che i palestinesi dovessero percorrere questa strada, per poi cambiare idea dopo i risultati del voto. Da allora, Stati Uniti e Israele hanno perseguito la pace alle spese della democrazia, per usare le parole di Rice. E i Palestinesi non hanno ottenuto nessuna delle due.

© 2016 – Bloomberg