L’Islam non c’entra, con le statue coperte

C'entra invece la rivoluzione khomeinista del 1979, scrive Adriano Sofri, e c'entriamo anche noi (fino a poco fa, almeno)

(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
(ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Adriano Sofri ha commentato sul Foglio la nota vicenda delle statue dei nudi dei Musei Capitolini di Roma coperte per il passaggio di Hassan Rouhani, il presidente dell’Iran, una Repubblica islamica con regole molto rigide su diverse questioni tra cui la rappresentazione di nudi. Sofri scrive che «la sensibilità attribuita all’ospite iraniano, che ha indotto qualche infortunato a occultare le statue del Campidoglio, non è né orientale, né islamica né iraniana: è la sensibilità della teocrazia sciita al potere in Iran dal 1978-79», raccontando poi di un viaggio compiuto nei primi mesi del regime, in cui alcune delle più preziose opere d’arte del paese erano già state coperte.

Aggiunge Sofri: «l’Iran in fesso omaggio al quale noi inscatoliamo le statue del Campidoglio è recente, passeggero, e vendicativo: contro un mondo in cui le danzatrici dei quadri danzavano e le ragazze di Teheran alta camminavano coi capelli al vento come le loro coetanee di Parigi. Il khomeinismo è stato il capitolo cruciale della vasta caccia alle donne evase che non ha fatto che allargarsi, si è estesa ai paesi a maggioranza sunnita, e ancora costituisce la posta decisiva della rivalità feroce fra sunniti e sciiti».

C’è alla radio una signora dal tono simpatico, cordiale che, interpellata in qualità di musulmana iraniana studiosa di teologia a Roma, esorta alla ricchezza dell’incontro. Ci sono due estremismi, dice: uno vuole coprire la donna fino a cancellarla, l’altro la scopre con lo stesso effetto. La virtù sta nel mezzo, l’oriente, non solo quello islamico – anche il buddismo, dice – conosce la sapienza del velo che mette più in risalto la bellezza e accresce il godimento. Vediamo. Quella sapienza è nota anche da noi, anche in Finlandia, Oscar Wilde l’ha chiamata danza dei sette veli, noi la chiamiamo spogliarello. Ma anche a passarla come una qualità orientale, c’è un ostacolo invincibile all’incontro e alla lezione reciproca fra un luogo in cui abbigliarsi e disabbigliarsi sia affare della libertà personale e un luogo in cui sia un’imposizione fisica tassativa, le cui sanzioni possono arrivare alle frustate pubbliche e alla pena capitale. Inoltre: la sapienza supposta orientale assegna i veli alla donna, il godimento all’uomo. Ecco un altro pregiudizio a svantaggio dell’incontro, non solo fra oriente e occidente, ma fra donna e uomo, dovunque. Anni fa fui colpito dalla opinione di un grande antropologo, che l’avvento dell’islam avesse costituito l’ostacolo maggiore all’incontro culturale fra oriente e occidente.

Vediamo ancora. Vediamo l’argomento che chiameremo dell’“anche noi, fino a poco fa”. Anche noi abbiamo messo le brache ai nudi di Michelangelo. Fino a poco fa all’ingresso delle nostre chiese si intimava alle donne di entrare solo a capo coperto – forse in qualche chiesa il cartello è rimasto. Ecco: noi ci vergogniamo di quello che abbiamo pensato conveniente “fino a poco fa” e invece era sbagliato, ma siamo anche fieri di averlo capito, e capaci di difendere un progresso. (Il Progresso infatti non c’è, ma i progressi sì). L’argomento dell’“anche noi” è essenziale a fornirci la dose di relativismo necessaria a ogni intelligenza e a ogni socievolezza (lo diceva perfino il Papa Ratzinger nella sua campagna contro l’assolutismo relativista, benché passasse inosservato): il limite sta nella rinuncia o addirittura nel ripudio della propria coscienza. “Noi” gliele abbiamo tolte le brache al Giudizio. “Noi” – nella persona di un magistrato maschio del tribunale di Milano – nel 1966 abbiamo intimato a una liceale che aveva partecipato a un’inchiesta fra i suoi compagni sulla “posizione della donna nella nostra società, nel matrimonio, nel lavoro e nel sesso”, di spogliarsi, per accertare “la presenza di tare fisiche e psicologiche”. Poi “noi” abbiamo assolto i ragazzi, e abbiamo fatto il Sessantotto.

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