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  • Sabato 30 gennaio 2016

Fausto Brizzi e il suo libro sui vegani

Come ci si adatta al matrimonio con una vegana, nel nuovo libro del regista

Fausto Brizzi, che è il regista di diversi film di successo (Notte prima degli esami, Ex, Maschi contro femmine), oltre che sceneggiatore e scrittore, ha pubblicato per Einaudi il libro Ho sposato una vegana, in cui racconta la storia dell’incontro con la donna – Claudia Zanella, vegana integralista – che poi è diventata sua moglie, e di come quest’incontro abbia cambiato le sue opinioni sull’alimentazione. In questo capitolo Brizzi racconta i suoi tentativi di recuperare terreno con lei dopo il primo fallimentare appuntamento.

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Piccola, necessaria precisazione. Perché non cancellai immediatamente il numero di Claudia dopo quella tragica e imbarazzante cena? Appoggiate il libro, afferrate il telefonino e googlate «Claudia Zanella». Fatto? Dunque avrete scoperto che una delle ragioni del mio interesse, certamente la più antica e banale, era estetica. Non fate commenti ironici, so benissimo di essere uno scontato maschio italiano che pensa più alla forma, anzi alle forme, che al contenuto. Tenete presente però che il fatto che una ragazza così, una che è arrivata in finale a Miss Mondo (e non è un modo di dire, c’è arrivata davvero, ma non ha vinto), sia diventata mia moglie è un evento sovrannaturale. Una meta femminea tanto irraggiungibile meritava una dose supplementare d’impegno e pazienza. Ma non era solo questo che la rendeva irresistibile ai miei occhi. Claudia era ed è un pianeta da esplorare. Un pianeta sconosciuto e misterioso. In un impeto di fantasia, direi… il pianeta Vega.

Naturalmente, provenendo da un altro sistema solare, è molto diversa da noi umani, in particolare da me. Non condividiamo, ad esempio, lo stesso background culturale. Non ci appassionano gli stessi cantanti, film, libri, passatempi e, inutile sottolinearlo, cibi. È il mio opposto in tutto, quindi uscire con lei è come imbarcarsi nella ciurma di Amerigo Vespucci o Cristoforo Colombo alla scoperta del nuovo mondo. Insomma, per farla breve, Claudia m’incuriosiva e mi attraeva decisamente. E quando qualcuno t’incuriosisce e ti attrae decisamente non c’è mai un vero perché. È così punto e basta.
Questo mio interesse nei suoi confronti era un problema gigantesco, poiché ero certo che, dopo quella serataccia, Claudia mi considerasse un cannibale incivile, crudele e senz’anima. Se volevo avere una minima possibilità di vittoria, non c’era altra scelta che documentarmi sull’argomento e mostrare un’apertura verso la cultura vegana. Oramai non potevo più fingermi nemmeno vegetariano, ma ero certo di riuscire a millantare almeno un finto interesse per la questione. Potevo trasformarmi in un credibile «aspirante vegano».

Inutile dire che sottovalutavo Claudia. Il problema non fu come comportarmi gastronomicamente durante un secondo appuntamento. Il problema fu ottenerlo. Scoprii tempo dopo che stavo partecipando, a mia insaputa, a un atroce ballottaggio con un altro pretendente alla sua mano. Una specie di talent show casereccio con due finalisti e il cuore di Claudia in palio. Peccato che il mio avversario fosse vegano da sette generazioni, attivista di Greenpeace e finanziasse mensilmente un rifugio per animali abbandonati. Avrei avuto molte più possibilità contro Brad Pitt (che tra l’altro, come se non bastassero l’avvenenza, la fama e la ricchezza, è vegano pure lui).
Per mia fortuna non sapevo di essere il concorrente outsider, altrimenti forse mi sarei subito ritirato dall’improba tenzone. Non seppi mai – e tuttora non lo so – dove sbagliò il mio avversario, ma sono certo che la combinò grossa per perdere un match in cui era nettamente favorito. In quei giorni, comunque, m’impegnai a fondo per diventare onnisciente sull’universo green. Non studiavo così tanto dagli esami di maturità, che alcuni di voi già sanno come andarono, perché li ho raccontati, senza inventare quasi nulla, in un film. Passai notti intere su Internet a documentarmi e cercare frasi tipo: «la differenza tra vegani, fruttariani e crudisti», «del perché lo stracchino è nostro nemico» e «come il tofu può cambiare l’umore del nostro intestino».

Il problema principale fu il mio rapporto conflittuale con la parola «vegano» che è un neologismo creato negli anni Quaranta da un inglese, un certo Donald Watson, comprimendo la parola vegetariano. Vi spiego: il mondo a mio avviso non è diviso in stupidi e intelligenti, alti e bassi, simpatici e antipatici, onesti e imbroglioni, come per la maggioranza delle persone. No. È diviso in «quelli che alla parola “Goldrake” provano un sussulto di nostalgia» e «quelli che non capiscono neppure a cosa mi riferisco». I primi, che di solito sono maschi e over quaranta, è inutile che leggano le prossime righe: sanno già benissimo che i vegani, cioè gli abitanti del pianeta Vega, sono cattivi e che attaccano spesso e volentieri la nostra amata Terra per conquistarla. Questo capitolo è per tutti gli altri, quelli che ignorano che quando «la Luna è rossa, le forze di Vega attaccheranno».
Facciamo un balzo indietro di quasi quarant’anni.
Tutto cominciò un lunedì dell’anno di grazia 1978, un anno prima che nascesse l’inconsapevole Claudia. Ero andato a fare i compiti a casa di Riccardo, un mio compagno delle elementari più bravo nei dribbling che nelle tabelline. Abitava nella via accanto alla mia, distanza in linea d’aria circa trenta metri. Questi nemmeno due isolati bastavano a fare la differenza. Ho sempre pensato che la sua strada fosse meno proletaria della mia e ne avevo anche le prove. La sua famiglia possedeva infatti un gioiello di ultima generazione, un Philips a colori. Io, abituato a smanettare sul manopolone laterale del Voxson in bianco e nero dei miei per sintonizzare le reti private che trasmettevano i film di Franco e Ciccio, m’inoltravo nel salotto di casa sua come se fosse la plancia di comando dell’Enterprise. Ogni tanto andavo da Ricky a vedere le partite dell’Italia, dando così un senso cromatico alla definizione «azzurri», altre volte per la Formula 1, scoprendo così che le Ferrari erano davvero rosse e non grigie.

Quel pomeriggio la tv dei ragazzi mandò in onda un nuovo cartone animato giapponese dal titolo misterioso: Atlas Ufo Robot. Solo tanti anni dopo scoprii che il nome della serie era dovuto a una banale svista. La serie Ufo Robot fu acquistata dalla Francia, dove la «guida informativa» è denominata, appunto, atlas. I funzionari Rai che si occupavano dell’adattamento lessero «Atlas Ufo Robot» e pensarono che quello fosse il titolo della serie. No comment. Siamo l’unico Paese al mondo in cui il cartone animato più famoso di sempre si chiama così.
Protagonista di Ufo Robot, ridiamogli il nome vero, è un certo Actarus, un giovane extraterrestre belloccio, fuggito dal suo pianeta poco prima della distruzione (stessa storia di Superman peraltro, che originalità) e rifugiatosi sulla Terra. Come bagaglio a mano aveva un robot, il leggendario Goldrake, di una trentina di metri di altezza, dotato di armi di distruzione incredibili, e un’astronave nella quale il robot si incastonava perfettamente. Per farvela breve, Actarus e il suo robottone Goldrake, insieme ad alcuni amici, diventano i difensori della Terra e contrastano i desideri di conquista da parte dei perfidi vegani. Ancora oggi ho negli occhi i mostri mandati dalle forze di Vega per distruggere Goldrake e la flotta degli aggressivi minidischi, pericolosi come zanzare tigre in un’appiccicosa sera d’estate. Da allora, per due anni, ogni giorno m’ipnotizzavo davanti alle avventure a colori di Actarus. Conosco a memoria le sigle, meglio del Padre nostro, e sogno ancora di poter gridare anch’io «Alabarda spaziale!» Se state pensando che ho dei disturbi psichici, ve lo confermo. Un’intera generazione di maschi, nati tra la fine degli anni Sessanta e i primi dei Settanta, se sente la parola «vegano» ha un brivido di terrore che gli percorre la schiena. Ho sempre pensato che applicare la stessa definizione a uno stile alimentare fosse oltremodo bizzarro. E altrettanto bizzarro è lo stile alimentare in sé, almeno lo era per le mie abitudini gastronomiche all’epoca del primo appuntamento. La maggior parte dei miei piatti preferiti erano assolutamente incompatibili con la cultura vegana. In perfetto ordine cronologico del loro ingresso nella mia vita, cito a memoria tutte le mie poco vegane abitudini gastronomiche preferite: il latte all’asilo, le girelle alle elementari, la pizza bianca con la mortadella alle medie, i cheeseburger al liceo, le bombe alla crema all’alba all’università, e a seguire il tiramisù, le melanzane alla parmigiana, le lasagne, la carbonara, la frittura di calamari e gamberi, il purè di patate, il profiterole, il pane casereccio con lo stracchino, senza dimenticare i fondamentali supplì della rosticceria di fronte alla palestra e le indimenticabili e mai superate polpette di mia nonna. Se vi è venuta fame leggendo queste righe, avete capito benissimo il mio sconforto.
Mi ero innamorato di una vegana!

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