I molti problemi della Borsa del Perù

Potrebbe essere declassata e perdere grandi volumi di affari: c'entrano la crisi delle materie prime e la poca lungimiranza del governo

di John Quigley, Christine Jenkins – Bloomberg

(ERNESTO BENAVIDES/AFP/Getty Images)
(ERNESTO BENAVIDES/AFP/Getty Images)

Il Perù è considerato da oltre dieci anni la stella nascente delle economie emergenti: grazie a una rapida crescita, un debito pubblico in calo e l’espansione delle sue riserve internazionali, che hanno portato il paese a essere considerato uno degli stati dell’America Latina più affidabili dal punto di vista del credito.

Quando è iniziata la crisi delle materie prime, tuttavia, il Perù – come i paesi vicini – ha accusato il colpo. Il governo ha tagliato la spesa, la disoccupazione è cresciuta e le esportazioni sono andate in difficoltà. Ma è successo anche qualcos’altro, e senza che nessuno reagisse: il numero di aziende abbastanza grandi da mantenere il mercato azionario di Lima nella categoria “emergente” ha iniziato a diminuire pericolosamente. Quattro anni fa ce n’erano una decina, mentre ora arrivano a malapena a tre. Le conseguenze potrebbero essere catastrofiche: entro giugno, la borsa di Lima sarà probabilmente declassata a livello “di frontiera” da MSCI Inc. (un’importante società di servizi finanziari americana), i cui indici rappresentano il riferimento globale per oltre 9,5 migliaia di miliardi di dollari di asset. Se il Perù dovesse finire nella stessa categoria di paesi come il Kazakistan, gli investitori internazionali potrebbero decidere di ignorare il paese, causando la fuoriuscita di miliardi di dollari da fondi comuni. Il governo è in affanno, e non rimane molto a tempo a disposizione. «Le autorità si sono svegliate solo adesso», ha detto Cesar Alvarez, responsabile di economia e finanza di Centrum Catolica, un’università di economia di Lima. «Ci vorrà praticamente un miracolo per aumentare il livello di trading in un periodo in cui la fiducia degli investitori è ai minimi. È molto probabile che il Perù diventi un mercato di frontiera».

L’anno scorso l’indice principale della borsa di Lima ha perso il 33 per cento: il crollo peggiore a livello mondiale, dopo quello dell’Ucraina in guerra. I volumi giornalieri di trading sono stati in media 15 milioni di dollari nei primi undici mesi dell’anno, la metà rispetto allo stesso periodo del 2012. Le 4.470 contrattazioni concluse in borsa a novembre rappresentano il livello più basso dal 2012. Questo nonostante la crescita economica – la più rapida registrata in America Latina dal giugno del 2002 – mostri segnali di ripresa, dopo il crollo delle esportazioni del metallo. Alcuni hanno attribuito la responsabilità della situazione al governo del presidente Ollanta Humala – in carica dal 2011 – che nonostante un crollo del volume degli scambi azionari del settanta per cento rispetto al 2007, ha aspettato fino a due anni fa prima di mettere in atto contromisure, come la riduzione dei costi di transazione e la regolamentazione dei fondi d’investimento nel settore immobiliare.

C’è voluto un ultimatum di MSCI ad agosto perché il governo approvasse l’eliminazione di una tassa del cinque per cento sulle plusvalenze, in vigore dal primo gennaio. Secondo i critici, le misure sarebbero insufficienti e tardive. Alfredo Thorne – fondatore della società di ricerca Thorne & Associates e membro del consiglio della borsa di Lima – ha detto che c’è una lunga lista di misure che il governo avrebbe dovuto varare per attirare gli investitori e spingere le aziende a vendere le loro azioni: permettere alle aziende pubbliche di vendere azioni, rimuovere le restrizioni per l’attrazione di capitali privati e creare nuovi titoli per incentivare la compravendita di obbligazioni aziendali. Inoltre, la riduzione della tassa sulle plusvalenze è stata applicata solo alle azioni e non ad altri strumenti finanziari.

Secondo il ministero delle Finanze, non ci sarebbero prove concrete che le norme fiscali degli ultimi anni abbiano favorito il calo di liquidità. Il ministero ha detto di aver adottato misure per aumentare il volume di scambi in borsa, come l’eliminazione delle restrizioni per la quotazione di società a bassa capitalizzazione, la semplificazione delle norme per la vendita di azioni e la recente modifica delle norme sui market maker (intermediari finanziari che si occupano di liquidità all’interno dei mercati). «La decisione di sfruttare queste modifiche per aumentare la liquidità dipende totalmente dal settore privato», hanno detto fonti interne al ministero. Anche dopo la riduzione di tasse e commissioni e l’esenzione dalla tassa sulle azioni, il Perù rimane un mercato più costoso rispetto ai confinanti Cile e Colombia, più grandi e con maggiore liquidità. Secondo Carlos Rojas, managing partner della società Andino Asset Management – con sede a Lima – se si considerano anche i problemi strutturali, il Perù è in una posizione di netto svantaggio concorrenziale per gli investitori d’oltreoceano.

Se declassato a livello “di frontiera”, il Perù si ritroverà con una disponibilità di capitali molto inferiore: mentre per i mercati emergenti si parla di quasi duemila miliardi di dollari di investimenti, solo venti miliardi sono investiti nei mercati di frontiera. Secondo Black Rock Inc., il Perù perderebbe la sua quota dello 0,2 per cento nei mercati emergenti, per guadagnare il 15 per cento nel segmento di frontiera, evitato da molti grandi investitori istituzionali. Secondo Alberto Arispe – CEO della società con sede a Lima Kallpa Securities SAB – gli ultimi tre governi del Perù non avrebbero considerato i mercati dei capitali una priorità: sono stati fatti solo aggiustamenti superficiali, evitando le necessarie e profonde modifiche strutturali. La responsabilità per la riclassificazione da parte di MSCI è di tutti: il ministero delle finanze, gli enti che regolano il mercato dei titoli, la borsa, gli investitori istituzionali e gli intermediatori. «Non se ne è occupato nessuno», ha detto Arispe, «Sapevamo tutti che i volumi di trading erano sempre più in calo e che il mercato stava peggiorando, ma nessuno ha preso l’iniziativa per cambiare le cose».

Nell’ultimo anno, all’incirca, la borsa ha introdotto una nuova piattaforma di trading, si è fusa con la clearing house Cavali (ente che fa da controparte nei contratti stipulati all’interno di un mercato, per ridurre il rischio di inadempienze) e ha ceduto la gestione dei suoi indici a S&P Dow Jones Indices. Queste e altre misure – adottate a partire da settembre – dovrebbero aumentare il numero di azioni che soddisfano i criteri di MSCI per i mercati emergenti, e invertire il calo di liquidità prima della prossima relazione di MSCI a giugno, secondo il presidente della borsa di Lima Christian Laub. Il problema, secondo altri, è che il governo se ne sta di nuovo a guardare. «Hanno fatto negli ultimi tre mesi tutto quello che avrebbero dovuto fare negli ultimi dieci anni», ha detto Rojas, «Ora dobbiamo ancora dimostrare che funzioni».

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